Si fanno le guerre per appropriarsi del petrolio e poi si usa il petrolio per fare altre guerre (le emissioni mondiali degli apparati militari ammontano al 15% di quelle totali, ma non sono contabilizzate nell’accordo di Parigi). Le guerre producono profughi e per respingere i profughi si fanno altre guerre, come oggi in Rojava.

Petrolio e combustibili fossili imprigionano l’intera umanità nella dipendenza dalle guerre, ormai elemento costitutivo della condizione umana nel nostro tempo. Profughi e migranti imprigionano governi e popoli che non vogliono accoglierli nella dipendenza da bande e Stati canaglia incaricati di «tenerli lontani». Con l’aggressione al Rojava la subalternità dell’Unione europea verso la Turchia è apparsa evidente.

E in tutte le sue micidiali implicazioni; ma era già chiara fin dalla firma dell’accordo Merkel-Erdogan del 2016. Così come la «politica migratoria» dei governi avvicendatisi in Italia, e con essa quella di tutta l’Europa, sono state messe nelle mani di bande criminali (i kapò del Ventunesimo secolo), libere di praticare schiavismo, estorsione, stupro seriale, distruzione della dignità e delle vite altrui come compenso per il compito loro assegnato.

Difficile, per tutti i Governi dell’Unione europea, ricorrere al ritornello «io non sapevo»: la guerra al Rojava avvicina l’Europa e i suoi popoli alla verità: che è lo sterminio di genti sbandate e disperate in nome della difesa dei propri confini, cioè del «proprio stile di vita». Ma il senso di questa politica è «eliminiamoli tutti».

A dirlo in modo esplicito è stato (tra gli altri) Vittorio Feltri su Libero del 12.10: «Il problema è più semplice di quanto appaia: se smettiamo di salvare in mare chi sfida le onde prima o poi questi la smetterà di avventurarsi tra i flutti, e codesta storia dell’invasione finirà subito».

Feltri lo scrive e l’Europa lo fa, ma lo lascia dire a quelli come lui. Però non funziona: le partenze dalla Libia non diminuiscono anche quando in mare non c’è più nessuno a salvare i naufraghi; e molti dei profughi e dei migranti che riescono a raggiungere l’Italia lo fanno da soli, sui “barchini”: che cosa se ne fa di loro, Feltri? Li si ammazza sul bagnasciuga o li si riporta in mare per affondarli?

Su tutti coloro che si dicono contrari alle politiche criminali di respingimento, ma che poi ripetono, invocando il «buon senso», che «non si può accoglierli tutti», aleggia un silenzio ipocrita; perché in questa alternativa una via di mezzo non c’è, Tertium non datur.

Poiché quella dei migranti è diventata la questione numero uno in tutta Europa, è anche quella – non il deficit, non il debito – su cui si manifesta di più la subalternità del nostro paese verso gli altri partner dell’Unione, ben contenti di potersi «indignare»se l’Italia, come faceva Salvini, si assume il ruolo di killer per conto loro; ma comunque decisi a fare del nostro paese il deposito dei tanti disperati a cui non è più concesso varcare le Alpi. Si fanno vertici e promesse, ma la politica dell’Ue non cambia. Se mai, peggiora. E per la Grecia, comunque vada, è e sarà ancora peggio.

Fare la vittima (di una politica iniqua) o il questuante (di una ripartizione più equa di chi arriva), e meno che mai scambiare questa subalternità per qualche concessione sul deficit non è servito e non serve. La politica migratoria dell’Europa va ribaltata dalle fondamenta con una proposta che tolga innanzitutto ai migranti le stimmate di un peso insostenibile.

L’emergenza climatica e ambientale ce ne offre l’occasione. Le politiche di austerity vanno abbandonate: sono incompatibili con la lotta contro la conversione ecologica che richiede un grande piano di investimenti che faccia da cornice e sostegno a milioni di progetti locali con cui affrontare la transizione verso energie, produzioni, colture, mobilità e territori decarbonizzati: un green new deal che faccia da traino a tutte le altre regioni del mondo, ma di cui non possono essere protagonisti solo, né in primo luogo, governi e imprese; perché richiede innanzitutto un ruolo attivo delle persone, delle loro associazioni, delle loro comunità; e dei loro conflitti. Non c’è alternativa se non la corsa verso la distruzione della vita umana sul nostro pianeta (e non ce ne sono altri).

Il progetto di un green new deal che è al centro di tutte le istanze dei movimenti che oggi si muovono per imporre una svolta radicale in campo climatico e ambientale, e che saranno sempre di più e sempre più numerosi mano a mano che la situazione climatica si andrà deteriorando, impone di attivare milioni di nuovi posti di lavoro, a tutti i livelli di qualificazione: dunque anche per inserire – accanto a disoccupati, sottoccupati e precari nativi, e a chi perderà il posto in produzioni da chiudere, a partire da quelle delle armi – centinaia di migliaia, e domani milioni di migranti e di profughi.

Per renderli cittadini di una grande comunità che unisca in una sola «nazione» paesi di arrivo e paesi di partenza, e in cui tutti, nativi, migranti e nuovi arrivati, possano battersi insieme per la pacificazione e il risanamento dei paesi devastati dalle politiche climatiche e ambientali, dalla depredazione delle risorse locali, dalle guerre.

La mobilitazione a sostegno del popolo del Rojava accanto alle comunità curde di tutta l’Europa, e il sostegno che ad essa stanno dando i movimenti in lotta per l’ambiente e la conversione ecologica ci fornisce una indicazione su come affrontare congiuntamente clima, giustizia sociale e migrazioni.