Qualcuno conoscerà già la storia dei roentgenizdat, le lastre radiografiche su cui venivano duplicati i solchi dei vinili. Ritagliate a mo’ di disco, piegate e nascoste nelle maniche degli «spacciatori», furono il supporto prediletto per il pop occidentale vietato dal Cremlino sin dal 1958. Muzyka na rëbrach, musica sulle costole, propagatasi nell’oscurità come i cantici protocristiani diffusi oralmente nelle prigioni romane, letteralmente incisa sulle ossa della gioventù sovietica. Chuck Berry e Elvis Presley, Beatles e Rolling Stones, un indice destinato a crescere fino alle prime luci della Perestrojka.
Ma non solo a ovest guarda la hit parade del mercato nero, come dimostra il caso di Pëtr Leschenko, re del tango russo accusato di essere un rifugiato bianco e di diffondere la sua musica reazionaria tra i nobili antibolscevichi di Bucarest. Né era andata meglio alla musica colta. Si dice che Šostakovic dormisse con la valigia sotto il letto, dopo che la Pravda — nel gennaio del ‘36 — aveva bollato la sua Lady Macbeth come immondizia borghese infarcita di accuse al partito. Recensore d’eccezione, secondo i rumours, lo stesso Stalin. Il quale, dodici anni dopo, avrebbe promosso il documento firmato dall’ideologo culturale del Pcus Andrej Zhdanov, in cui si disponeva di tenere sotto controllo i compositori ispirati dalla corrotta musica occidentale.

CONTROLLO, CENSURA, repressione. Una scala di intensità che percorre la storia del rapporto tra musica e regime alternando i suoi gradi d’impatto. Se per il jazz degli anni Cinquanta e i suoi ascoltatori clandestini — i cosiddetti stiljagi — si predispone un’accurata sorveglianza, due decenni dopo si chiuderà un occhio, e anche due, per quella discomusic politicamente innocua e ideale per promuovere le tancploščadki, le sale da ballo moltiplicatesi dall’inizio degli anni Settanta.
Nell’era Putin al centro del mirino c’è sempre di più il rap, che a detta del nuovo zar «poggia su tre pilastri: sesso, droga e protesta». L’ultimo requisito è quello che lo preoccupa di più, se si pensa a come Navalny e altri oppositori riuscissero a riempire le piazze del dissenso anche grazie ai rapper invitati sul palco. «Se questa musica è impossibile da fermare, deve essere controllata» aveva tuonato il presidente nel 2018, stringendo le maglie del Roskomnadzor, il servizio federale per la supervisione della comunicazione di massa fondato dieci anni prima.
Vittime illustri i rapper Egor Krid, Allj e il popolarissimo Husky, al secolo Dmitry Kuznetsov. Per lui anche un breve soggiorno in prigione, di quelli che lasciano segni non sul corpo ma sullo spirito. Il corpo di Ivan Petunin in arte Walkie, invece, è stato ritrovato privo di vita lo scorso 30 settembre. Suicida a 27 anni per sfuggire all’arruolamento: «Non sono pronto a uccidere per nessun ideale, siamo ostaggi di un maniaco», aveva dichiarato nel suo ultimo messaggio su Telegram.

È L’ENNESIMA dimostrazione di come la guerra tra rap e regime sia salita anch’essa su un altro livello a partire dal 24 febbraio. Quella stessa sera Oxxxymiron aveva annullato i suoi concerti in patria per poi lasciare il paese e dar vita alla tournée Russians Against War, imitato dal collega Noize MC, creatore del progetto Voices of Peace. Il tutto mentre l’Europa non sapeva far meglio che rispondere con la stessa moneta, censurando pure Dostoevskij. Vittime illustri i rapper Egor Krid, Allj e il popolarissimo Husky, al secolo Dmitry Kuznetsov. Per lui anche un breve soggiorno in prigione
Entrambi da anni accusati di estremismo e offesa alla morale, da quel momento Oxxxymiron e Noize MC si sarebbero fregiati anche dell’etichetta di «nazista», ormai abituale riconoscimento per chi si schieri contro Vladimir Putin. Che qualche rapper al suo fianco pure lo annovera: si pensi a Timati, ospite della parata di marzo allo stadio Lužniki e scafato uomo d’affari. Nei suoi testi nessun incitamento alla rivolta, solo soldi e machismo, temi molto più cari al presidente.

DELLA STORIA dei roentgenizdat qualcuno ricorderà anche l’epilogo. Non fu la repressione ma il progresso tecnologico — sotto forma di magnitizdat, musicassetta — a chiudere quell’esperienza. In epoca digitale la nuova cortina di ferro contro l’Occidente si snoda lungo i territori del web, con quella che molti analisti hanno ribattezzato «balcanizzazione dei social»: Facebook che cede il passo all’irregimentato VKontakte, Instagram bloccato, fake news (fattispecie di arbitraria definizione) punite con reclusioni fino a 15 anni.
Eppure, tornando alla musica, anche il rapporto tra censura e pirateria sembra dirigersi verso un nuovo paradigma. Nel mercato nero delle idee il peso specifico dei contenuti musicali appare in netto calo, rispetto a quelli radio-televisivi e ai feed degli influencer. Ma quando l’arte torna a essere sovversiva, sono di nuovo gli artisti a pagare in prima persona, e non tutti hanno la valigia pronta come Šostakovic.