Sono in sei, mamma, papà e quattro figli, una bambina di cinque anni disabile dalla nascita e tre ragazzini sotto i 13 anni. Vivevano nel nord di Gaza, sono arrivati in Italia in due diversi viaggi tra fine gennaio e febbraio: la mamma e la bambina su un C130 dell’Areonautica militare, il papà e i due fratellini sulla Nave Vulcano.

Insieme a un altro nucleo familiare palestinese (i genitori e cinque minori), sono ospitati in un Centro di accoglienza straordinaria di Genova. Dopo l’ospedalizzazione, sono stati affidati alla prefettura: da lì sono finiti nel Cas, in una stanza di 16 metri quadrati. Gli è andata peggio di altri: la maggior parte dei 157 palestinesi condotti in Italia per cure mediche sono stati presi in carico, su richiesta del governo, da associazioni del terzo settore che hanno trovato loro degli alloggi in giro per l’Italia. Roma non ha previsto fondi, né protezione speciale per inserirli immediatamente nel Sistema di accoglienza. E qualcuno si è ritrovato in un Cas.

«LA CAMERA in cui soggiornano è arredata con letti a castello e un armadio, ha un bagno privato ma solo per chi ha bambini con sé. Altrimenti il bagno è in comune, fuori dalla stanza. I materassi sono in pessime condizioni igieniche. Ci sono problemi di muffa. Gli spazi comuni sono i tavoli di una mensa e una cucina dove i soggiornanti possono cucinare. Le visite da parte di esterni alla struttura è molto limitata ed è proibita per loro la visita delle stanze».

Questo è il resoconto che ci arriva da attivisti di Genova che tengono i contatti con le famiglie palestinesi portate nella loro città con le quattro missioni di evacuazione di feriti e malati di Gaza, organizzate in questi primi mesi del 2024 dal governo. Sono loro a fare da tramite con la famiglia intervistata.

«Le settimane dopo il 7 ottobre sono state molto dure. Il nord di Gaza, dove vivevamo, è stato colpito dai bombardamenti, senza sosta. Abbiamo perso molti familiari e i due dei nostri figli sono rimasti feriti, lievemente: uno ha perso una parte dell’orecchio e l’altro è stato ferito a un polpaccio», racconta la madre. Sono stati curati a Deir al-Balah, all’ospedale Martiri di al-Aqsa, prima di spostarsi a sud, nel grande esodo di sfollati che in questi mesi ha svuotato il nord di Gaza.

«NOSTRA FIGLIA ha cinque anni ed è disabile dalla nascita. Tramite il ministero della salute di Gaza è stata inserita nella lista per la possibile evacuazione in Egitto – racconta il padre – A inizio gennaio ci hanno telefonato: poteva attraversare il valico il Rafah. Avrei dovuto accompagnarla io, ma poi il governo egiziano ha comunicato al ministero che avrebbe autorizzato solo mia moglie».

In Egitto la madre e la bimba restano tre settimane, per poi salire sul primo volo italiano, il 29 gennaio. Il padre e gli altri figli ottengono il permesso per uscire da Gaza più tardi. In Italia giungono a bordo della Nave Vulcano, scalo a La Spezia.

Dopo l’ospedalizzazione, la famiglia è stata trasferita nel Cas genovese: «In Palestina avevamo una casa con quattro camere, tre bagni, una cucina e due sale. Ora viviamo tutti in un’unica camera – continuano – Le condizioni di vita sono pessime. Anche per quanto riguarda i mezzi di sostentamento: riceviamo 250 euro al mese e siamo in sei. Ci sentiamo abbandonati: l’Italia si è mobilitata per venirci a prendere, per darci dei visti. Ha fatto le cose in grande, per poi concludere il tutto così».

LA PICCOLA, aggiunge la madre, ha problemi di salute e nel Cas continua ad ammalarsi: «Sono più di due settimane che ha una brutta tosse». Il futuro è fumoso, un senso di sospensione peggiorato da mesi trascorsi nel mezzo della pesantissima offensiva militare israeliana, e poi la fuga, la paura per l’assenza di cure adeguate.

Una condizione, denunciano gli attivisti, aggravata dal peso di dover risolvere da sé il rebus della regolarizzazione, quando il visto turistico di 90 giorni sarà scaduto. Come denunciano diverse realtà di base, la pressione è la stessa: per proseguire nel processo di accoglienza si insiste perché chiedano la protezione internazionale. Loro non vogliono: «Noi un giorno vorremmo tornare a Gaza, abbiamo ancora la speranza del ritorno a casa».