Alberto Di Minin è Professore ordinario di Economia e Gestione delle Imprese presso l’Istituto di Management della Scuola Superiore Sant’Anna e Research Fellow with the Berkeley Roundtable on the International Economy (BRIE, University of California Berkeley), nonché direttore del Galileo Galilei Italian Institute alla Chongqing University in Cina di cui è grande esperto e osservatore. Di recente ha pubblicato (con Valentina Cucino, Luca Ferrucci e Andrea Piccaluga) La buona impresa. Storie di startup per un mondo migliore (Il Sole 24ore, 2021). In Sant’Anna dirige e coordina il “China Team”, composto dal direttore esecutivo del Galilei e PhD candidate Marco Bonaglia, il PhD candidate Jacopo Cricchio e dalla China issues Programme Officer, Fabiana De Carlo.

La Cina ha vissuto un periodo di grande difficoltà in termini mediatici, considerata al momento – prima dell’attuale situazione ucraina – come il grande nemico.

Non so quanto sia un periodo negativo per la Cina, dove i racconti delle persone, come sa bene chi la frequenta, sembrano quelli dei nostri genitori negli anni ’60, c’è la percezione che domani sarà meglio di oggi. Di sicuro al momento per chi avrebbe bisogno di essere in Cina è un periodo complicato per le politiche del Covid e perché sembra che in questo momento la Cina possa fare a meno di noi. Così vengono a mancare i cosiddetti “tessitori di rapporti” tra noi e loro.

In che modo la tensione internazionale tra Cina e Stati Uniti impatta sulle relazioni tra Cina e Italia dal suo punto di osservazione, quello dell’innovazione e della tecnologia.

Mi piace partire da quello che chiamo il “metodo Nicosia”, in memoria del nostro console a Chongqing, Filippo Nicosia (mancato nel gennaio 2020, ndr) con cui ho avuto la fortuna di lavorare. Nicosia insisteva molto su un approccio con la Cina caratterizzato da alcune elementi collegati, due veri e propri pilastri strategici: una “concretezza studiata”, un approccio il più possibile in grado di stanare i dettagli di un accordo che può apparire iper vantaggioso, affrontare la Cina in modo che si vada alle radici delle questioni e consapevoli del contesto culturale nel quale ci si trova a operare; un approccio sistemico per evitare spiacevoli avventure. Per questo l’Italia deve andare in Cina come Europa, non è possibile l’avventura solitaria perché si favorirebbe anche una possibile logica di divisione della controparte da parte dei cinesi. Non bisogna presentarsi come un potenziale anello debole della catena. In questo senso non pagano le fughe in avanti, preferisco essere un “fast follower” anziché un “first mover”, perché tra i first mover ci sarà Musk ma ci sarà anche chi rimane intrappolato all’interno di qualche sorpresa non proprio piacevole.

Quali sono i settori da guardare con attenzione in Cina?

Tutte le tecnologie legate al piano di sviluppo dell’Intelligenza artificiale da parte della Cina, di cui si vede già l’impatto sulla società. Ma amplierei il campo: la Cina non è più solo la fabbrica del mondo ma è il laboratorio del mondo. Tante cose che stanno bollendo in pentola in Cina nel mondo tecnologico sono applicate alla realtà e devono essere studiate assolutamente. La cosa più interessante è proprio l’applicazione, dall’ingegneria finanziaria, all’Ai, nella vita reale, quelle tecnologie che costituiscono il punto di innesco della società. Ci sono anche tecnologie che non sono pronte per il mercato occidentale (come scanner per le ecografie) e sono state testate in Cina e sono poi tornate in Europa, si tratta di vera e propria reverse innovation. Fondamentale è dunque lo scambio di competenze, per questo bisogna scendere dalle barricate di una retorica che ci chiama a una competizione anziché a una cooperazione. Perché altrimenti risponderemo a muri cinesi con altri muri.

Il tema dei semiconduttori è diventato rilevante, anche l’Europa ha prodotto un piano, per quanto considerato insufficiente. Che cosa bisogna aspettarsi?

È un tema strategico sul quale anche l’Europa, come gli Usa e il Giappone, ha bisogno di “campioni” nel settore, non tanto in funzione anti cinese ma perché ne abbiamo bisogno. Anche gli Usa hanno rinunciato a una strategia nazionale, per poi accorgersi che invece era necessario pensarci. Come recitava un titolo di un libro di fine anni 80 di Stephen S. Cohen e John Zysman, “Manufacturing matters”: se tu smetti di produrre oggi, non saprai innovare domani.

Sovranità digitale, in che modo la Cina potrebbe accelerare anche un processo autonomo europeo?

A fine anni ’90 nell’agenda di Lisbona c’erano grandi piani per lo sviluppo digitale dell’Europa. Possiamo dire che non ci siamo riusciti al contrario degli Usa e della Cina che attraverso i suoi metodi, compreso anche il blocco a grandi aziende straniere, ha fatto passi da giganti. Noi in Europa abbiamo un ambiente competitivo, regole, standard e un mercato diverso e sono state fatte scelte diverse, rispettabili e con più opzioni di scelta (ad esempio tra aziende americane e cinesi). A mio parere la linea del Piave dovrebbe essere questa centralità della identità digitale e della sovranità dei dati. Noi potremmo essere davvero un contesto in cui l’innovazione e la regolamentazione danno vita a un sistema interoperabile.

Sugli standard, a proposito, è la Cina che forse si sta muovendo più di tutti (pensiamo alla legge sulla sicurezza dei dati, ai nuovi protocolli per la rete). A questo proposito, come legge lo scontro tra governo e piattaforme cinesi?

Credo che nessuno sappia cosa stia accadendo davvero: avventurarsi in spiegazioni è davvero rischioso. Anche il solo dire che questo è un tentativo di ricentralizzare un contesto nel quale si è sottovalutato la potenza disruptive dell’imprenditoria privata è un rischio. Il messaggio è: osserviamo con attenzione senza farci traviare da clamorose fughe in avanti. Guardiamo insieme anche ai tecnici cosa sta accadendo alle piattaforme cinese. Più che chiedersi il perché bisogna capire dove sta portando questo tipo di sviluppo. Il business delle piattaforme è dominante a livello planetario, quindi bisogna essere cauti.

In Cina si sta osservando ormai un forte ritorno dello Stato con Xi Jinping.

Sì assolutamente è un tema di cui non se ne parla abbastanza. Sappiamo che ci sono tante “Cina” ed è questo il punto di partenza: è vero che c’è un elemento centralizzante, ma – ad esempio – ci sono moltissimi laboratori d’innovazione. Posso parlare di Chongqing, dove dal 2007 siamo presenti con il nostro osservatorio privilegiato del Galileo Galilei Italian Institute: i motori sono quasi sempre state le regioni. Oggi è interessante notare come questi motori si siano raffreddati – e lo vediamo sul campo, prima c’era più autonomia – per un aumento dei controlli. Dovremmo chiederci: la Cina è ancora un agglomerato di laboratori innovativi regionali? Esiste ancora questa disruption che arriva dalle periferie? È un argomento di cui si parla troppo poco.

Che ne pensa degli sforzi – simili – tra mondo occidentale e Cina circa codici etici sull’utilizzo, ad esempio, dell’Intelligenza artificiale?

È fondamentale esprimere – nonostante la complessità della materia – che i nostri valori, le nostre inquietudini e i nostri dibattiti vengano travasati nell’intelligenza artificiale. La tecnologia e la sua regolamentazione hanno sempre avuto uno sviluppo non paritetico; dobbiamo ragionare su questi temi in movimento: non è complicato, si è sempre fatto. Se un robot girando il braccio elettronico rischia di farti male, bisogna capire come gestire normativamente questa possibilità. Con l’IoT anche oggetti che non hanno “intelligenza” possono essere oggetto e soggetto di diritti. Quindi siamo all’interno di un dibattito in corso nel quale è fondamentale esserci con competenze economiche, giuridiche e tecniche, attraverso un presidio filosofico riguardo quelli che sono i nostri valori.