Siamo abituati a concepire la storia dell’Asia solo quando è collegata a quella europea, o occidentale. Usiamo ancora espressioni come «Medio Oriente», che per gli asiatici non hanno alcun senso. Quando poi capita che un paese come la Cina progredisce fino ad arrivare a scalfire l’ordine mondiale a guida Usa, continuiamo a riportare tutto al nostro ombelico. La Cina è considerata – già oggi – la prima potenza mondiale per il Ppa, parità del potere di acquisto, e da quando è salito al potere Xi Jinping ha lanciato la sfida agli Usa nel settore dell’alta tecnologia.

La postura internazionale della Cina è segnata dal progetto lanciato nel 2013, la Nuova via della Seta, One Belt One Road per i cinesi, la Belt and Road Initiative per il resto del mondo (acronimo scelto da Pechino proprio per rassicurare).

[do action=”citazione”]La Cina sta cercando di assurgere a un ruolo egemone di cui improvvisamene l’Italia è diventata un tassello importante in Europa? Farsi questa domanda significa applicare visioni parziali a una potenza asiatica, che concepisce il proprio modo di porsi in modo molto differente da una potenza occidentale.[/do]

La Cina con il Bri cerca – ovviamente – di aumentare la velocità degli scambi commerciali per favorire le proprie merci, cerca di presidiare gli snodi in modo da averne il controllo, cerca accordi bilaterali per favorire la sua attuale forza in sede di contrattazione. È una forma di globalizzazione piuttosto stramba ai nostri occhi, perché non ha alcuna volontà di esportare un modello: l’egemonia che cerca la Cina, dunque, è la possibilità di avere mercati aperti per le proprie merci, dalla manifattura a quella più tecnologica che in questo momento si concentra sulle connessioni 5G in grado di dare un vantaggio competitivo non da poco alle sue aziende. Un paese comunista che vuole il libero mercato può apparire strano.

Ma in realtà non lo è, se sapessimo cosa è diventata la Cina anche limitandosi solo agli ultimi 40 anni. O se si fosse letto Adam Smith a Pechino di Giovanni Arrighi dove si spiegava come la vera mano invisibile sia lo stato. E in Cina l’hanno capito tempo fa.

L’eventuale firma del memorandum of understanding della Cina con l’Italia, per quanto riguarda Pechino, ha delle ricadute evidenti: politiche, perché otterrebbe una sorta di consenso di un paese fondatore dell’Ue, nonché il primo del G7 a firmare un simile documento. Ma si tratta di un accordo all’interno di un progetto, non di un trattato (come erroneamente si è più volte scritto in questi giorni).

Si tratta di entrare in un novello tianxia, «tutto quanto sta sotto il cielo (cinese)», pietra angolare della concezione «imperiale» di Pechino, ben diversa da quella Usa che mira a rendere simili a Washington tutti i sistemi politici che incontra. In questo senso la bussola cinese non è ideologica: rimanendo all’Europa la Cina ha stretto accordi con Grecia, Portogallo e Ungheria, tutti molto diversi tra loro.

[do action=”citazione”]Tianxia è un concetto che non prevede confini geografici, quanto culturali, di civiltà e che un tempo veniva gestito tramite un sistemi di tributi; oggi Pechino deve adattarsi all’esistenza degli stati-nazione e come tale procede.[/do]

Il dibattito scaturito in Italia sulla Cina è surreale: non abbiamo una politica estera da tempi immemori, non siamo stati in grado di prendere posizioni chiare in nessuna delle crisi internazionali che hanno finito per ridisegnare le alleanze internazionali. Abbiamo sempre presidiato l’idea di non fare dispetti a nessuno: con Maduro, ma anche con Guaidó, con Putin, ma anche con Trump, per rimanere a fatti recenti.

E sul caso cinese la confusione regna sovrana o meglio «sovranista»: abbiamo un governo incapace di leggere quanto sta succedendo nel mondo, che confonde un accordo con la Cina – dopo le rimostranze americane – con una «pezza», ormai, per non sfigurare: se fosse per l’attuale governo l’Italia firmerebbe qualsiasi cosa pur di non fare innervosire Pechino e nello stesso tempo rassicurare gli alleati americani. In questo modo ci si pone in una posizione di estrema debolezza con tutti: con la Cina, con gli Usa e perfino con l’Europa dove si predica uniformità salvo poi procedere ognuno per conto proprio (l’esempio della Germania principale partner commerciale della Cina in Ue è emblematico).

Cosa serviva dunque? Una presa d’atto chiara: negli equilibri mondiali la Cina peserà sempre di più; le connessioni commerciali che Pechino sta imbastendo nel Mediterraneo ci riguardano, almeno fino a che la Cina non sceglierà definitivamente i passaggi artici per arrivare dove gli interessa davvero, nel Nord Europa.

All’interno di questa presa d’atto, anziché continuare a fomentare i dubbi americani sulla «correttezza» delle aziende cinesi, bisognerebbe ragionare su cosa ci aspetta perché in futuro dovremo scegliere se preferiremo che i nostri dati, la futura ricchezza delle nazioni, siano gestiti da americani o da cinesi ben sapendo che in entrambi i casi non sarà un bel vedere (il caso Nsa dice qualcosa?). Di fronte a questo dilemma anche la sinistra che oggi gioca il ruolo del filo-atlantismo di ferro, avrebbe una grande opportunità: cosa sono i dati se non un bene comune?

In termini di realpolitik – invece – ben venga una vicinanza con Pechino ma il passaggio deve essere gestito con intelligenza: un miraggio – forse – per questo governo che su ogni tassello della sua opera finisce per cadere negli stessi errori, il più delle volte dovuti a una mancanza di visione futura, un ingrediente molto complicato da gestire durante una campagna elettorale permanente.