Chissà quali ideogrammi cinesi significano rien ne va plus. Forse li en qù jia. Ma al casinò “laotiano” di Van Pak Len c’è solo una roulette elettronica e i tavoli sono tutti da baccarat, circondati, nelle salette adiacenti, da svariate slot machine. I clienti però sono soprattutto cinesi. Qualche thailandese forse.

I croupier e in genere il personale, di servizio o della sicurezza, di diverse nazionalità: cinesi, laotiani, birmani. E birmana è una gentilissima cameriera che ci accompagna al ristorante dell’albergo che ospita il casinò. I prezzi dei piatti sono tutti in yuan e sono anche piuttosto accessibili. Non quelli dell’albergo, le cui camere variano dai 300 ai duemila dollari a notte. Sconto nel weekend.

BENVENUTI al Kings Romans Casino, la più pacchiana, sfavillante e controversa attività di imprenditoria cinese in odore di mafia del territorio laotiano. Anzi della Golden Triangle Special Economic Zone, un’area di 10mila ettari affittati per 99 anni in gran parte a privati. Gode sostanzialmente di extraterritorialità e, per poterci entrare, la polizia laotiana deve chiedere il permesso al Kings Romans Group con cui Vientiane fece un accordo nel 2007.

Sulle attività della Kings Romans Group e del suo padrone, il tycoon cinese Zhao Wei, si è già detto tanto e di tutto (l’ultimo è un rapporto dell’International Crisis Group (Icg) con un titolo che parla da solo: Transnational Crime and Geopolitical Contestation along the Mekong). Nondimeno, la città che visitiamo è in piena espansione: gru ovunque, sbancamenti, palazzi in costruzione e addirittura una sorta di grande mall in stile “austroungarico rivisitato” che sembra voler emulare qualche parco giochi di Disneyland.

NELLA ZONA speciale, che si trova sul Mekong all’incrocio tra Laos, Thailandia e Myanmar, ci siamo passati sulla rotta per un altro avamposto cinese fuori dalla Cina: una delle tante città che i soldati del Kuomintang, rifugiatisi in Myanmar per riorganizzare la resistenza dopo la vittoria di Mao, hanno creato prima in Birmania e poi in Thailandia.

Ma se Ban Rak Thai si è dimostrata una delusione, il reame del Kings Romans Casino è davvero una sorpresa.

Potreste immaginare che questa enclave urbana cinese – dove si compra e vende in yuan e le scritte sono solo ideogrammi – e che per ora si espande urbanisticamente su tremila ettari nella libera Repubblica del Laos, si spaccia per un “modello asiatico di sviluppo” in uno dei Paesi più poveri del Sudest asiatico? E che si sviluppa pur avendo collezionato denunce e sanzioni oltre a una serie di nomignoli non proprio edificanti, come Scam City (città della truffa) o Hub of Illicit Activity, sede di sospetti crimini transnazionali che vanno dalla tratta di animali esotici a quella di esseri umani passando per il traffico di stupefacenti?

DIFFICILE DIRE se la cameriera birmana che ci fa una breve visita guidata all’interno del gigantesco e pulitissimo hotel-casinò faccia parte di quel gruppo di vittime che ciclicamente viene alla luce del sole quando riesce ad andarsene dalle favolose promesse di guadagno a cui abboccano ragazzi e ragazze dei Paesi vicini. Tornati casa, quando ci riescono, raccontano di ore di lavoro chiusi in stanze dove si traffica con cellulari e siti web per accalappiare i conti correnti di qualche arzillo vecchietto in cerca di avventure virtuali.

International crisis group
Quell’area tra Myanmar e Laos è diventata una zona contigua di esuberante criminalità, in gran parte fuori dalla portata delle autorità statali

INUTILE DIRE che la guerra in Myanmar è uno dei miglior viatici per i birmani che cercano di uscire dal buio del conflitto. Basta attraversare la frontiera. “Lo Stato Shan del Myanmar e la provincia di Bokeo nel Laos settentrionale (dove si trova il Kings Romans, ndr) sono diventati una zona contigua di esuberante criminalità, in gran parte fuori dalla portata delle autorità statali. Il fiume Mekong che taglia in due la zona – scrive il rapporto di Icg – è anche un asse di competizione geopolitica che complica gli sforzi per combattere la criminalità organizzata”. La “competizione politica” è quella tra Usa e Cina.

AL KINGS ROMANS Casino nessuno è colpito dalla nostra presenza. Qualche europeo in cerca di avventure in carne e ossa non stupisce da queste parti e si confonde con i torpedoni dei turisti. Il sistema di sicurezza è discreto anche perché sembra godere di ampia impunità.

Venendo dal Laos, le autorità laotiane controllano i passaporti – come si fa alle frontiere – all’ingresso della zona speciale cui si può accedere comodamente anche dalla Thailandia in 5 minuti di battello. È in costruzione persino un aeroporto. L’aerostazione potrebbe portare dalla Cina o dalla Thailandia squadroni di giocatori incalliti che vengono da Paesi dove il gioco d’azzardo è vietato. Come in Laos peraltro (salvo rare eccezioni).

Il punto di domanda è se dietro le luci del casinò si nasconda in qualche segreta stanza anche il “gambling online”, vietatissimo e già nell’occhio del ciclone in altre zone del Laos (Boten) o della Cambogia (Sihanoukville), dove per anni è stato possibile praticarlo. Poi, improvvisamente, le leggi sono cambiate e sia Boten sia Sihanoukville si sono svuotate di imprenditori mafiosi e ludopatici. I prezzi di terreni e immobili sono crollati e Boten è risorta (ora ci passa la mega ferrovia Vientiane – Kunming); Sihanoukville è ancora nel limbo.

Il Kings Romans (ormai questa città si chiama così) potrebbe fare la stessa fine?

PER ORA il denaro circola, pulito o sporco che sia e la città si espande nonostante i dossier sempre smentiti dal boss Zhao Wei, che per il Tesoro Usa è a capo di una Transnational Criminal Organization. Il lavoro non manca e i cinesi – tanto meno i laotiani – non battono ciglio.

Finché ci si limita a qualche sanzione o a qualche denuncia, le cose sembrano andare a gonfie vele. Ma nonostante lo sfavillio il luogo resta avvolto dalle tenebre. Forse anche per il nome che porta e che – visti i picchi di produzione nuovamente alti in Myanmar e Laos – potrebbe far ritornare il Triangolo d’oro ai fasti di oppio ed eroina da accompagnare alla pastiglie di metanfetamina, droga sintetica molto richiesta. Traghettarla lungo il Mekong non è un’impresa.

MOLTO PIÙ A SUD, nella provincia tailandese di Mae Hong Son, il villaggio di Ban Rak Thai promette tutt’altro. E alla luce del sole.

Se una volta gli ex Kuomintang si davano davvero molto da fare a piantare e incidere papaveri nel Triangolo d’oro, ora non è certo l’oppio che li fa ricchi. La Thailandia ha fatto una gran pulizia delle piantagioni nelle zone di produzione e imposto la sostituzione delle coltivazioni.

A Ban Rak Thai, molto più a sud del Triangolo, è in espansione la pianta del caffè. Ma anche il turismo. Un turismo soprattutto locale ma che ha trasformato la piccola cittadina fondata dai nonni “bianchi” scappati dalla vittoria rossa: una trasformazione pacchiana con decine di villette monofamiliari in serie che scimmiottano la tradizione cinese classica ma sembrano un misto di edilizia popolare e vorrei ma non posso.

I residenti continuano a vivere in fatiscenti case tradizionali: le villette sono per i turisti. Affacciate su un laghetto, punteggiato da ristoranti e negozi di spezie e aromi cinesi, danno l’idea di un paesaggio finto dove le vestigia e i racconti che affascinavano i viaggiatori sono solo un ricordo sbiadito.

Come quella foto in bianco e nero che vediamo appesa in un negozietto cinese. Non c’è più traccia del Kuomintang e di una battaglia che Chiang Kai-shek ha perso ma che il capitalismo ha vinto. Del resto anche in Cina Deng Xiaoping aveva assicurato che «arricchirsi è glorioso».

I figli del Kuomintang lo sapevano già e da qualche anno a questa parte hanno superato i cinesi con questo business pacchiano che però non ha niente di illegale. Chissà non sia un modello anche per Zhao Wei.