La riforma delle pensioni. Uno spauracchio ricorrente già da un po’, nelle società occidentali. Un argomento che potrebbe diventare d’attualità anche in Cina. Sì, proprio la patria della storica crescita che in 40 anni ha sollevato milioni e milioni di persone dalla povertà. Ora, però, la Cina inizia a restringersi. Quantomeno dal punto di vista demografico.

La popolazione della Repubblica popolare è diminuita nel 2023 per il secondo anno consecutivo. Nel 2022 si erano perse 850 mila persone, primo storico calo dal 1961, tempi di carestia in seguito al “grande balzo in avanti” di Mao Zedong. Nell’anno appena concluso, con l’India che ha preso il posto della Cina come paese più popoloso al mondo, il calo è di 2,08 milioni. L’alta disoccupazione giovanile e i prezzi delle case stanno affossando i tentativi del governo di invertire il trend negativo.

Agevolazioni fiscali, sussidi per l’acquisto delle case e congedi di maternità prolungati non stanno fin qui bastando a sollevare un tasso di natalità che ha raggiunto il minimo di 6,39 nascite ogni mille persone. Non pare sin qui funzionare nemmeno la cosiddetta “politica del terzo figlio”: non solo perché è difficile scalfire una prassi divenuta anche culturale come quella del figlio unico, ma soprattutto per un mutamento profondo nella società cinese che da rurale è diventata urbana. Con l’aumento esponenziale della classe media, sono anche cambiati gli stili di vita. Si studia e lavora di più, dunque ci si sposa più tardi.

Già oggi il 21% della popolazione cinese (circa 297 milioni di persone) ha più di 60 anni, ma nel 2040 la percentuale dovrebbe arrivare al 28%. L’Accademia cinese delle scienze sociali ha previsto qualche anno fa che nel 2035 si potrebbe arrivare al potenziale esaurimento del sistema pensionistico. Tanto che Xi Jinping potrebbe essere costretto prima o poi a operare delicate riforme e aprire il dossier delle pensioni. L’età pensionabile in Cina è d’altronde tra le più basse al mondo: 60 anni per gli uomini, 55 per le impiegate e 50 per le donne che lavorano nelle fabbriche. Norme non più in linea con l’andamento economico e demografico del gigante asiatico.
Pechino spera intanto di poter invertire un calo che appare in realtà irreversibile, nonostante i più ottimisti auspichino un rimbalzo in concomitanza dell’anno del drago (il segno più amato dell’astrologia cinese) al via dal prossimo 10 febbraio.

Ma secondo le principali banche d’investimento internazionali, nel 2024 la crescita del pil cinese sarà inferiore al 5%. «Turbolenze esterne e scarsa fiducia dei cittadini: abbiamo di fronte diversi rischi e incognite», ha ammesso ieri l’Ufficio nazionale di statistica presentando i dati del 2023. La crescita del pil è stata del 5,2%, un dato in linea con l’obiettivo «superiore al 5%» fissato dal governo, considerato però molto cauto dopo che nel 2022 il target era stato mancato di parecchio. Pechino rivendica che la sua crescita è la più alta tra le grandi economie mondiali. Vero, ma è più debole di quanto ci si aspettasse dopo la fine delle restrizioni anti Covid. Se si escludono gli anni della pandemia è il dato più basso dal 1990, l’anno dopo piazza Tiananmen.

A incidere è il peggioramento della crisi immobiliare, settore che ha sempre fatto da traino. Pesa la scarsa fiducia di cittadini e imprese, che si ripercuote sui consumi, la cui crescita a dicembre ha nettamente rallentato. Nonostante il picco sulle auto elettriche, l’instabilità globale si ripercuote anche sull’altro tradizionale fattore di crescita: le esportazioni. L’anno del drago potrebbe non bastare per riempire le culle.