Possiamo scommettere che nelle prossime settimana, dopo la fine di questa Cop28, noi cittadini faremo l’abitudine al concetto di phase-out, cioè di eliminazione graduale o progressiva dei combustibili fossili, ma la realtà dei fatti con cui ci scontriamo è un’altra, riassunto nel sottotitolo dell’ultimo Production Gap Report: «I principali produttori di combustibili fossili hanno in programma di estrarre ancora di più nonostante le promesse sul clima».

Il rapporto, che è coordinato dallo Stockholm Environment Institute ma riporta in copertina il logo del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, che ne guida e supporta la realizzazione, è uno schiaffo all’ottimismo e agli applausi esagerati andati in scena a Dubai. Con riferimento ai primi venti Paesi produttori di carbone, gas metano e petrolio, la frase che apre il Production Gap Report lascia poco spazio all’immaginazione: «I governi, in aggregato, hanno ancora in programma di produrre più del doppio della quantità di combustibili fossili nel 2030 rispetto a quella che sarebbe compatibile con la limitazione del riscaldamento a 1,5°C. Il persistere del divario di produzione globale mette a rischio una transizione energetica equa e ben gestita».

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I 20 PAESI a cui si fa riferimento si chiamano Arabia Saudita, Australia, Brasile, Canada, Cina, Colombia, Emirati Arabi Uniti, Federazione russa, Germania, India, Indonesia, Kazakhstan, Kuwait, Messico, Nigeria, Norvegia, Qatar, Regno Unito e – naturalmente – Stati Uniti d’America. Insieme rappresentano l’82% della produzione e il 73% dei consumi dell’offerta globale di combustibili fossili.

Il Production Gap a cui fa riferimento il report è la differenza tra la produzione di combustibili fossili prevista dai governi e i livelli di produzione globale coerenti con la limitazione del riscaldamento globale a 1,5°C o 2°C. L’analisi rileva che, in aggregato, i governi prevedono di produrre circa il 110% in più di combustibili fossili nel 2030 di quanto sarebbe compatibile con la limitazione del riscaldamento a 1,5°C (o il 69% in più di quanto sarebbe compatibile con la limitazione del riscaldamento a 2°C). Per quanto riguarda il carbone si tratta di un aumento a breve termine, cioè con un orizzonte al 2030, che si sposta però addirittura al 2050 per petrolio e gas. Per essere coerenti con la limitazione del riscaldamento a 1,5°C, però, l’offerta e la produzione globale devono invece diminuire rapidamente e sostanzialmente da qui alla metà del secolo.

GLI AUMENTI STIMATI dai piani al 2030 sono rispettivamente del 460%, del 29% e dell’82% più alti per il carbone, il petrolio e il gas, rispetto all’obiettivo 1,5°C. «Lo scollamento tra i piani di produzione di combustibili fossili dei governi dei governi e i loro impegni per il clima è evidente per tutti e tre i combustibili» segnala il report.

Alcuni esempi: la China National Petroleum Corporation, che è di proprietà del governo cinese, prevede che la produzione nazionale di gas aumenterà del 56% tra il 2020 e il 2030 e del 13% tra il 2030 e il 2050; nel febbraio 2022, la Commissione Nazionale per lo Sviluppo e la Riforma (Ndrc) ha approvato tre nuovi progetti di miniere di carbone, di cui il Paese è il primo consumatore globale.

NEGLI STATI UNITI, invece, a marzo 2023, il Dipartimento dell’Energia ha autorizzato 18 progetti di esportazione di Gnl su larga scala, per un totale di 450 miliardi di metri cubi all’anno di capacità. Nello stesso mese, il governo federale ha approvato il più grande progetto petrolifero, quello di ConocoPhillips in Alaska, che prevede una produzione fino a 180mila barili al giorno alla fine degli anni Venti, quando in teoria il petrolio dovrebbe essere sparito dal nostro orizzonte.

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La Russia entro il 2035 potrebbe produrre il 53% in più di carbone e il 32% in più di gas: per il Paese guidato da Putin la fine dei combustibili fossili significherebbe una riduzione netta del 20 per cento del prodotto interno lordo. L’Arabia Saudita prevede un aumento dell’1% annuo nella produzione di petrolio fino al 2050. E si potrebbe continuare con la produzione di carbone in salita in India e Indonesia, i finanziamenti del governo canadese per lo sviluppo di infrastrutture al servizio della produzione di combustibili fossili, l’espansione significativa per la produzione di petrolio (63%) e gas (124%) in Brasile, dov’è possibile almeno sperare in un ripensamento da parte di Lula.

NON C’È NESSUNA scheda sull’Italia, perché il nostro Paese non è un produttore «vero». Al netto di improbabili disegni autarchici, lo stop del governo dovrebbe interessare le società partecipate, da Eni (che nel 2022 ha incrementato il portafoglio risorse di circa 750 mln di barili di petrolio equivalente) a Snam, con i suoi gasdotti e le navi rigassificatrici, infrastrutture pesanti il cui orizzonte di ammortamento è ben oltre il 2030.