Monumentale opera dedicata alla drammatica carestia che fra il 1958 e il 1962 devastò le campagne cinesi, Lapidi (Mubei) venne pubblicato per la prima volta da Yang Jisheng a Hong Kong nel 2008; bandito nella Repubblica Popolare Cinese, fu tradotto prima in inglese e in francese nel 2012, e esce ora da Adelphi nella traduzione di Natalia Riva (pp. 856, € 38,00). Considerato ormai un classico di quella storiografia cosiddetta investigativa e non ufficiale, che, fra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo, intendeva salvare dall’amnesia collettiva il drammatico passato recente di una Cina in corsa per il «paradiso» dello sviluppo capitalistico, Lapidi voleva essere – scrive il suo autore nell’introduzione – una lapide in memoria del padre, morto di fame nel 1959 e degli altri trentasei milioni di vittime; ma anche una lapide per il sistema politico che allora rese possibile una tale tragedia e, infine, per lo stesso Yang che ambiva a iscrivere in quest’opera il senso ultimo della propria esistenza.

Letto adesso a più di quindici anni dalla sua pubblicazione, mentre sotto la leadership di Xi Jinping storia e memoria sono sempre più soggette a un controllo pubblico ossessivo, il libro di Yang Jisheng costituisce anche una testimonianza di quello scorcio di tempo, un paio di decenni fa, in cui in Cina indagare e ricercare i lati oscuri del passato sembrava, entro certi limiti, possibile.

Giornalista della «Xinhua», la principale agenzia di stampa cinese, Yang Jisheng ha lavorato a questo studio per dieci anni, raccogliendo materiale d’archivio e testimonianze, confrontando documenti, statistiche e memorialistica, ripercorrendo i luoghi della devastazione alla ricerca delle ultime tracce dei fatti. L’esito è un racconto dettagliato e puntuale, che ripercorre gli anni del Grande Balzo in Avanti, la enorme campagna «produttivistica» basata sulla collettivizzazione, lanciata da Mao Zedong e dal Partito Comunista Cinese nel 1958, e conclusasi con una carestia drammatica nelle aree rurali, costata milioni di morti fino all’inizio degli anni Sessanta.

Intrecciato allo studio delle fonti, il racconto si svolge su più piani: ricostruisce il ruolo della leadership centrale, di Mao e dei suoi compagni, e ripercorre le dinamiche e le competizioni – politico-ideologiche ma spesso personali – che, a più riprese, impedirono di comprendere le implicazioni intrinseche al velleitarismo del Grande Balzo e dei suoi obiettivi, sia in termini economici che politico-sociali.

Dall’altro lato, Lapidi è il racconto degli effetti catastrofici che si produssero sulle comunità contadine a causa della natura del sistema politico cinese di allora, dell’accentramento del potere decisionale nelle mani del leader, dell’indottrinamento della classe dirigente e intellettuale, e dei riverberi distorti degli ideali e dell’ideologia sulle microdinamiche del potere nelle geografie locali. Infine, lo studio di Yang vuole confrontare dati e statistiche alla ricerca della prova definitiva e inoppugnabile della scala gigantesca delle morti per fame nella Cina di quegli anni.

Nel racconto di Yang, il Grande Balzo in Avanti e, in primo luogo, la creazione delle comuni popolari coincisero con l’espropriazione totale da parte del Partito di ogni forma di autonomia dei contadini, privati della possibilità di nutrirsi del proprio lavoro, assoggettati fin «nello stomaco» dall’autoritarismo dei quadri che gestivano le comuni. Pronti a tutto pur di salvarsi agli occhi del Partito, erano tanto feroci con i contadini quanto timorosi e asserviti all’autorità superiore.

Emblema di questo stato dei fatti, la storia delle mense collettive, propagandate come il segno dell’abbondanza e della sicurezza alimentare promessa con l’istituzione delle comuni popolari, ma destinate – in realtà – ad amplificare gli effetti drammatici della penuria di cibo, se non addirittura a causarla grazie agli sprechi e alla mala gestione.

In un mondo contadino, abituato a lottare per la sussistenza, l’accesso al cibo, la sua abbondanza e la sua penuria, racchiudevano il senso stesso del successo o del fallimento della rivoluzione.

Ritratto di una società e di un sistema dominati dall’incertezza e dalla paura, il libro di Yang mostra come queste si siano tradotte in una lotta incessante per la sopravvivenza: politica per i dirigenti, fisica e psicologica per gli altri milioni di persone. Mao temeva di vedere messa in dubbio la correttezza delle proprie scelte economiche e quindi la propria autorità carismatica; i suoi compagni temevano di perdere il loro potere se avessero detto la verità al Presidente; i quadri del Pcc, a ogni livello, paventavano il ritrovarsi dal lato sbagliato rispetto alla «verità» sostenuta dalla leadership e di finire travolti dalle accuse dei superiori o dei colleghi; i contadini avevano paura di essere lasciati morire di fame, come è finito per accadere. In questo sommarsi di paure non c’era spazio per l’empatia né per la comprensione; la sopraffazione e l’abuso divennero strategie di sopravvivenza e la violenza – psicologica ma anche fisica – una conseguenza inevitabile.

Alla base degli eventi drammatici che ricostruisce e che investirono diverse province e aree, Yang riconosce un’unica matrice, cioè la natura totalitaria del sistema politico creato dal Pcc dopo il 1949, con il suo mescolarsi di potere carismatico e rigidità amministrative, di incompetenza tecnica e indottrinamento ideologico. Era un sistema che si esprimeva e agiva attraverso un susseguirsi di campagne di critica di massa, fra slogan e espressioni enfatiche, sempre alla ricerca di un nemico.

Quali furono, effettivamente, le cause che portarono alla carestia è argomento che divide ancora, almeno in parte, gli storici; e molti non concordano con le tesi di Yang sull’età di Mao, perché pensano che le cause della grande fame furono più complesse e legate anche a fattori contingenti, e che in quella Cina ancora povera e arretrata la carestia – e la violenza e la disumanizzazione che la accompagnò – sia stata la conseguenza di dinamiche sociali e culturali specifiche di ogni provincia e luogo. Se il Grande Balzo fu un passaggio estremamente complesso e articolato dell’esperienza maoista, sia sul piano sociale, che su quello politico e culturale, è difficile dubitare delle responsabilità della dirigenza nell’avere mancato di riconoscere e rispondere alla carestia prima che mietesse milioni di morti.

Nella Cina tradizionale, case, palazzi ed edifici di culto erano in genere costruiti con il legno, materiale deperibile e flessibile, soggetto all’usura del tempo e destinato alla cura continua dell’uomo. Di pietra erano gli edifici funerari, le tombe monumentali degli imperatori e le stele dei morti, perché la memoria che vi era iscritta durasse in eterno. «All’improvviso mi ricordai – scrive Yang – della fine che avevano fatto le lapidi nel mio villaggio nel 1958: alcune erano state rimosse e impiegate nella costruzione di impianti di irrigazione; altre erano state usate come basi per gli altiforni artigianali nel corso della grande campagna per la produzione dell’acciaio; altre ancora, utilizzate per pavimentare le strade, erano state calpestate da decine di migliaia di persone».  Anche nella Cina di oggi, le stele funerarie sono rare, nel nome della sobrietà dei funerali privati, per risparmiare spazio e materiale, per evitare sprechi e pomposità. La memoria di molti morti, di carestia o di epidemia, non deve fare troppo rumore nella corsa verso il futuro.