Nel 1976 Ciccio Vinci aveva 18 anni. Era uno studente liceale. Ed era comunista. Guidava la giovanile del Pci nella Piana di Gioia Tauro. Era nato a Cittanova, ai piedi dell’Aspromonte sulla terrazza più alta che affaccia sul golfo di Gioia donde comincia l’azzurra distesa del mar Tirreno. E in questo luminoso orizzonte aveva affissato lo sguardo e l’intelligenza Ciccio Vinci, ragazzo coraggioso che sognava un mondo nuovo e una società più giusta. La sua massima aspirazione era sconfiggere la ‘ndrangheta.

Nel pieno di quella che è conosciuta come la sanguinosa faida di Cittanova, durante un’assemblea studentesca, fece un discorso contro l’oppressione delle cosche che lasciò un segno indelebile. «Bisogna spezzare questa ragnatela che ci opprime» aveva detto. Una frase che fu ben impressa nella testa delle migliaia di persone che da tutta la provincia accorsero ai suoi funerali. E nella testa di quei 5000 studenti che, poco tempo dopo, marciarono a Cittanova, fino a circondare la casa di un boss.

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QUEL 10 DICEMBRE DEL 1976 Lottare contro le ‘ndrine a Cittanova non era cosa facile. A queste latitudini non era semplice chiamarsi fuori. Da una parte la cosca dei Facchineri, dall’altra quella dei Raso-Albanese. Una guerra per il controllo territoriale: 104 caduti dal primo tragico agguato dell’aprile 1975. A morire anche i bambini, come Domenico e Michele Facchineri di 11 e 9 anni, ammazzati a sangue freddo il 13 aprile 1975, il lunedì di Pasqua, «la strage di Cittanova».

Otto mesi prima di morire Ciccio Vinci era scampato a un attentato. «È un avvertimento», disse ai suoi compagni. L’episodio non lo turbò più di tanto. L’esuberanza della giovane età, la militanza nella Fgci, il suo impegno nella costruzione delle prime leghe dei giovani disoccupati e, soprattutto, la passione nella conquista quotidiana di altri ragazzi alla battaglia per il riscatto sociale, gli avevano fatto dimenticare tutto il resto. Due mesi prima che qualcuno decidesse la sua uccisione, Ciccio Vinci, in un convegno pubblico, accusò la mafia di essere responsabile non soltanto dei disordini, della paura, dei ricatti, ma anche di essere «strumento di arretratezza economica e culturale». Come ricorda la famiglia Vinci, quel maledetto 10 dicembre del 1976 Ciccio si era alzato di buon ora, poi in viaggio verso Reggio per presentare in caserma i documenti per il rinvio della naja.

Al rientro era rimasto a casa. Tutto il pomeriggio a giocare con il nipotino. Poi una decisione fatale: accompagnare la zia a prendere il marito, Girolamo Guerrisi, che si trovava in campagna. Ciccio Vinci sale sull’auto del cugino Rocco Guerrisi, una Fiat Campagnola. Sono le sei del pomeriggio, è buio pesto. Nei pressi del cimitero scatta l’agguato. Sono in tre, sparano in due con una lupara e una pistola. L’altro fa il palo. Ciccio Vinci morirà in ospedale. La zia se la caverà. I cognomi qui a Cittanova hanno un loro peso. Il dedalo delle parentele unisce mondi lontani.

Legami di sangue tra i Guerrisi e i Vinci, legami di sangue tra i Guerrisi e i Facchineri.

Nella logica della faida si poteva pensare a una vendetta trasversale. Le indagini e il successivo dibattimento fecero chiarezza. Ciccio aveva preso la macchina del cugino solo per un caso.

Non era lui il bersaglio. Nel marzo del 1979 vennero arrestati i fratelli Enzo e Romeo Marvaso, Francesco Trimarchi e Gerardo Galluccio. In quella ragnatela era caduto anche Enzo Marvaso: compagno di classe, Ciccio lo aiutava spesso nei compiti. Fu proprio lui a sparare col fucile, Trimarchi usò la pistola, il terzo era Galluccio. Nel giugno del 1982 la sentenza di primo grado della Corte d’assise di Palmi: 30 anni ai tre, assoluzione con formula dubitativa per Romeo Marvaso. In appello le pene vennero ridotte a 24 anni. Ciccio Vinci è, così, caduto sotto la dura logica della faida. È morto innocente. Una morte per errore. Un regalo alla ‘ndrangheta.

A CITTANOVA, 40 ANNI DOPO A Cittanova, antico centro bracciantile di raccoglitrici di olive, di piccola e media borghesia agraria, l’omertà non ha retto a lungo. Questi sono luoghi capaci di grandi slanci, malgrado la cappa mafiosa. Qui nacque Teresa Gullace, un simbolo della resistenza romana, la cui vicenda venne ripresa e resa celebre da Roberto Rossellini per il personaggio della Sora Pina, interpretata da Anna Magnani, in Roma città aperta. Il pellegrinaggio alla tomba di Ciccio Vinci è stato, così, negli anni una muta testimonianza di sfida alla signoria mafiosa.

UN MONUMENTO LO RICORDA nel cimitero del paese. Simboleggia la ragnatela opprimente che intrappola le speranze, rappresentate da un garofano rosso. Una trama che può esser spezzata con l’impegno e la volontà di chi lotta. Come Ciccio Vinci che non chinò la testa dinanzi alla prepotenza, che non finse di non capire o di non sapere, che non volle metter la propria coscienza sotto naftalina, anche a costo di rischiare la pelle. Fu spezzato come un’ostia, con la lupara e le pistolettate, ma non è stato travolto dall’oblio. E a Cittanova ancor oggi si spendono parole dolci per lui. La preside del Liceo Scientifico dell’epoca, Augusta Torricelli Frisina, ci dice: «Francesco Vinci non era soltanto un bravo studente, era anche un mio collaboratore. Veniva in presidenza nella sua qualità di rappresentante degli studenti e mi sottoponeva mille questioni. Non trascurava nulla. Io ero in quel liceo da poco e mi sono dovuta chiedere perché fosse così stimato e ben voluto. La spiegazione l’ho trovata subito nel suo impegno, nella grande forza, nella serietà e sensibilità che dimostrava». Come evidenziato da Sharo Gambino, indimenticato cantore di Calabria, nel suo libro ‘Ndranghita (Rubbettino): «Era un giovane che sognava un mondo più giusto e la lupara gli spense, insieme con la vista e il battito del cuore, quelle sane speranze».

LA STORIA DI CICCIO VINCI venne raccontata da Claudio Careri, Danilo Chirico e Alessio Magro ne Il sangue dei giusti (Città del Sole). “Era davvero un giusto” ha detto Luigi Ciotti, inaugurando qui a Cittanova, il polo della legalità, intitolato a Ciccio Vinci nel quarantennale della sua morte. “Ma noi non dobbiamo pensare ai morti, quanto piuttosto al nostro morire. E tutti i giorni si muore se si perde il senso della vita. E per vivere serve il coraggio di stare dalla parte giusta. Tutto questo Ciccio l’aveva capito e il suo ricordo può valere da punto di riferimento per le nuove generazioni”. Gli fa eco Francesco Morano, che di Ciccio Vinci fu compagno di lotta negli anni ’70 e sindaco di Cittanova dal 1993 al 2007. “La sua memoria ha fortificato i movimenti di lotta alla ‘ndrangheta, le lotte studentesche, la sinistra e la nuova sinistra calabrese dell’epoca. E soprattutto nel Pci reggino, dalla sua morte in poi, si è capito che la lotta antimafia era imprescindibile, era la vera battaglia da affrontare”. Ciccio Vinci è una delle 291 vittime innocenti di ‘ndrangheta, eroi, piccoli e grandi, di quella strana ed esiliata patria che chiamiamo legalità. Che potremmo chiamare libertà.