La presidenza di Rodrigo Duterte si appresta a tagliare il traguardo del primo anniversario.

Provando a ripercorrere questi dodici mesi, è quasi stupefacente realizzare che stia governando da così poco tempo.
La centralità della sua figura nella vita politica filippina, la quantità e densità di eventi che lo hanno visto protagonista e l’alto livello di memorabilità dei suoi discorsi, contribuiscono a proiettare una sorta di aura monolitica alla sua presidenza.

Quell’ometto pittoresco, come l’ha descritto l’ex presidente statunitense Obama, può essere definito con una grande varietà di aggettivi, ognuno dei quali derivante da una delle sue imprese dialettiche.
Carismatico sì, ma anche machista, maschilista, misogino, apologetico dello stupro, blasfemo (nonostante sia il presidente di un paese a stragrande maggioranza cattolica, ha tranquillamente insultato il Papa). Certamente e inequivocabilmente populista, ma solamente per garantire il benessere del popolo filippino.
Parlare di Duterte non è mai semplice, perché si rischia di cadere nella banalità del sensazionalismo.

La sua trentennale carriera amministrativa è stata caratterizzata da uno schietto e sicuro utilizzo del potere, senza indecisioni e senza compromessi. Troppo spesso le sue prese di posizione vengono interpretate come casuali, figlie di un’irruenza a tratti incontrollabile.

Duterte detesta non essere preso sul serio, non essere ritenuto all’altezza della situazione, e le diverse gradazioni di paternalismo che ne derivano.
La lotta alla droga è diventata quasi un’ossessione per lui. Ecco perché è importante fare un passo indietro, capire dove e come possa essersi sviluppata questa assertività populista. Non è una fascinazione estemporanea data dalla foga del momento, ma un sentimento identificativo che è centrale nella sua dialettica e nel suo disegno politico.
L’azione diretta è sempre stata un pilastro del suo modo di intendere la politica, sin dall’inizio del suo regno su Davao nel 1988. All’epoca la città, la terza più popolosa del paese, era intrappolata in una spirale di crimine e povertà, con un’alta diffusione di droghe tra le fasce più giovani della popolazione.
Il neoeletto sindaco trovò una soluzione particolarmente semplice ed efficace per risolvere il problema. Eliminare letteralmente spacciatori e tossicodipendenti dalle strade, anche ricorrendo alla forza.

Durante una conferenza stampa nel 1996, al suo quarto mandato cittadino, Duterte presentò una sorta di manifesto politico della sua idea di lotta alla criminalità e attaccò frontalmente gang malavitose e spacciatori. Dichiarò che finché lui sarebbe rimasto alla guida della città, la violenza nei loro confronti sarebbe stata legittima e giustificata. Una sostanziale condanna a morte.
In questo modo rese pubblico un modus operandi che era già, informalmente, cristallizzato nella quotidianità davaense. Secondo il report di una ONG filippina, i famigerati squadroni della morte di Davao uccisero 1424 persone nel periodo tra il 1998 e il 2015. Nella sola Davao City.

Una volta che Digong è diventato presidente, la consolidata pratica delle esecuzioni extragiudiziali è stata estesa all’intero paese. In questo primo anno, sono state uccise circa 8000 persone. La costante personalizzazione della politica, presentata spesso da Duterte come una battaglia personale, e la sua demagogia hanno creato una netta cesura con la passata amministrazione. L’ex presidente Aquino era visto come un burocrate, il Partito Liberale come un apparato sempre più lontano dalla necessità delle masse.
In questo senso Duterte è riuscito a presentarsi come una cesura rispetto al passato, come una forza rivoluzionaria in grado di ribaltare le sorti del paese. Ma in realtà Duterte è espressione dell’élite politica nazionale, e del ricorrente familismo, tanto quanto lo è la dinastia Aquino.

Non potendo quindi tracciare una chiara e netta linea di demarcazione con l’establishment, una volta focalizzato il bersaglio della sua propaganda domestica si è poi orientato verso l’esterno.
Ha cercato di costruire una relazione quasi dicotomica con determinate forze esterne, accusate di pregiudicare i suoi sforzi. In questo senso, soprattutto considerando i destinatari delle sue invettive, la dialettica populista di Duterte si è impreziosita di una matrice quasi antimperialista e terzomondista.
Quando gli è stato chiesto come avrebbe affrontato Obama, nel caso fosse emersa la questione della tutela dei diritti umani, ha sottolineato che le Filippine non sono sudditi degli Stati Uniti. Ha poi aggiunto, mischiando inglese e tagalog, che il «figlio di puttana» non l’avrebbe passata liscia.

Stessa sorte e improperi son toccati all’Unione Europea, colpevole di aver suggerito un programma di recupero medico per i tossicodipendenti piuttosto che giustiziarli per strada. Il manifesto di questo approccio demagogico è probabilmente rappresentato dalla visita di stato di Duterte in Cina, nell’ottobre 2016.
In quell’occasione ha ufficialmente annunciato la separazione dagli Stati Uniti (falso) e un riposizionamento strategico verso Pechino (falso). Includendo nell’equazione anche l’immancabile Putin, ha poi prospettato una situazione dove il neonato trio Cina-Filippine-Russia se la dovrà vedere con il resto del mondo.

Duterte ha anche dato prova di scegliere i paragoni più azzardati e imbarazzanti. Senza scomodare il parallelo con Hitler, quando ha annunciato l’introduzione della legge marziale nell’isola di Mindanao, ha anche dichiarato che avrebbe calpestato i diritti umani senza problemi, pur di sconfiggere il terrorismo di matrice islamica. Come fatto da Marcos, un altro uomo forte, d’azione e costante fonte d’ispirazione per Digong.
La sua mania del controllo e dell’ordine si traducono in questa trasposizione populista del maschio alfa. Duterte ha il costante bisogno di ribadire che lui è il salvatore della nazione, l’unico in grado di mantenere al sicuro il popolo filippino. O meglio, la porzione di cittadinanza che condivide i suoi valori e la sua visione della società.

Il suo obiettivo è chiaramente quello di venire ricordato in una determinata maniera dal popolo filippino, l’unico vero destinatario del suo ardore populista, senza curarsi particolarmente del giudizio della comunità globale. La volontà di essere l’alfiere della lotta alla droga, l’eroe antimperialista contro l’egemone statunitense e la sua invadente presenza militare, rappresentano le fondamenta della “nuova” tradizione populista filippina.