Lo spettacolare arresto del capo del Clan del Golfo Dairo Antonio Úsuga, detto Otoniel, avvenuto sabato a Necocli, vicino al confine con il Panama, ha rappresentato per Iván Duque la più bella notizia che avrebbe mai potuto ricevere.

Un successo che l’impopolare presidente colombiano – non a caso ribattezzato il «subpresidente» per la sua dipendenza dal leader dell’estrema destra Álvaro Uribe, pari solo a quella dal governo Usa – ha cercato di spremere fino all’ultima goccia. Per esempio non facendo che ripetere che la cattura del leader dell’organizzazione di narcotrafficanti più potente della Colombia è stata «il colpo più duro inferto al traffico di droga in questo secolo» e «un successo paragonabile solo alla caduta di Pablo Escobar».

Sull’operazione, realizzata da circa 500 membri delle forze di sicurezza, supportati da 22 elicotteri e dall’intelligence di Usa e Regno Unito, il presidente si è nuovamente soffermato in un’intervista esclusiva apparsa ieri sul quotidiano El Tiempo, sbandierando il «trionfo della legalità» e lo «sforzo titanico» del suo paese contro il crimine organizzato, dicendosi «orgoglioso delle forze militari e del fatto di esserne il comandante supremo» e rivendicando i propri meriti: «Ho promesso al paese che avremmo catturato questo criminale e ho mantenuto la parola. Per me si è trattato di una sfida personale: quasi ogni giorno supervisionavo tutte le attività operative».

Durante l’intervista, Duque è tornato anche sull’annuncio del ministro della Difesa Diego Molano secondo cui Otoniel sarà estradato negli Stati uniti, nonostante debba rispondere alla giustizia colombiana per molteplici e gravissimi reati. «Il processo deve essere rapido», ha dichiarato, aggiungendo che «una volta scontata la sua condanna per narcotraffico negli Usa, dovrà rispondere per tutti i suoi crimini in Colombia» (sempre che viva abbastanza a lungo, ma questo il presidente non lo ha detto).

E, già che c’era, Duque non ha esitato a sparare a zero contro la «narco-dittatura di Maduro», esprimendo la sua soddisfazione per l’illegale estradizione negli Usa del diplomatico Alex Saab, l’imprenditore colombiano naturalizzato venezuelano vicino al presidente del Venezuela, ritenendola fondamentale «per far cadere tutto il castello di carte del narcotraffico e della corruzione che si nascondono dietro il chavismo, il regime di Maduro e la balla del socialismo del XXI secolo».

Ma ci vuole ben altro che la cattura di un criminale, per quanto tra i più ricercati al mondo, per risollevare la popolarità di un presidente che, tanto per cominciare, deve il suo incarico proprio a quell’Uribe sotto indagine – tra molto altro – per i suoi stretti legami con il paramilitarismo e il narcotraffico.

Un discredito, quello che sconta Duque, che si è tradotto in una rivolta popolare senza precedenti iniziata il 28 aprile e mai del tutto rientrata – l’ultima giornata di proteste si è svolta il 20 ottobre – e a cui certo non hanno giovato i ripetuti scandali in cui, alla faccia del «trionfo della legalità», è incorso il suo governo, a partire da quello dei Pandora Papers che ha travolto, con oltre 550 imprenditori e alti funzionari, la vicepresidente e ministra degli Esteri Marta Lucía Ramírez.

Un discredito, infine, legato a una serie ininterrotta di massacri, violenze, assassinii selettivi contro leader sociali ed ex combattenti, in perfetta continuità con quel «genocidio politico» di cui si sono macchiati i governi che lo hanno preceduto e in assoluta coerenza con l’obiettivo dell’uribismo di fare a pezzi l’Accordo di pace firmato con le Farc nel 2016.