Leggere che la procedura di autorizzazione alla ricerca di Giulio Regeni presso Cambridge abbia definito l’Egitto un Paese sicuro desta impressione, e scosta la tenda dietro cui si organizza quotidianamente la gestione delle attività di ricerca nelle università, argomento lontano dalla pubblica attenzione. La tragedia ha illuminato ampie e profonde contraddizioni che riguardano tanto la disciplina della “ricerca a rischio” quanto le distorsioni che essa introduce nel processo di produzione di conoscenza scientifica.

Da diversi mesi un numero crescente di università italiane ed europee è impegnato in un dibattito – a cui le pagine del Manifesto hanno dato spazio – sulle criticità della ricerca sul campo e sugli assalti che la liberà di quest’ultima subisce da più parti. Impegnati in una ricerca su come gli atenei europei interpretano e applicano il principio di duty of care (obbligo di assistenza) rispetto ai propri ricercatori, notiamo l’incertezza, l’imbarazzo, l’impaccio, una forma di disnomia che emerge con la necessità di definire contesto, luogo, modalità e natura stessa della ricerca in zone a rischio: dove, come e quando questa si configura tanto nel quotidiano di la conduce ricerca sul terreno quanto in quello di chi, a distanza, ne segue il processo amministrativamente e scientificamente. Focalizziamoci sugli aspetti geografici, prescindendo per ora dalla natura più o meno sensibile dei dati di ricerca, questione attorno alla quale ruota un pressante dibattito che riguarda la definizione, acquisizione e gestione di dati e l’adozione di linee guida etiche.

Si è parlato di ricerca in zone di pericolo, in ambiente ostile, in Paesi pericolosi, in luoghi difficili, in Paesi complessi. E ancora: di ricerca che va protetta da incidenti, o di rischio da ricerca da gestire e mitigare. In questo ragionamento polisemico entrano in gioco due concetti chiave nella narrazione del mondo contemporaneo e nella creazione di aree entro cui sentirsi a proprio agio, al riparo, in sicurezza: quello di mappa da un lato, e quello di rischio dall’altro.

L’inserimento di un certo Paese in liste di luoghi sicuri alimenta l’illusione data dalla classificazione, dalla demarcazione cartografica, dalla mappatura secondo schemi che inevitabilmente tendono alla semplificazione e alla dicotomia – al qua versus là, alla sicurezza dell’ intra moenia rispetto ai mostri dell’extra-muros. Un nesso intimo vincola da sempre geografia e potere, e ancora di più, potere ed etichettatura: catalogare una certa porzione di mondo come “sicura”, istituire la categoria stessa di “Paese sicuro” è dunque un atto politico, una manifestazione di potere agita e al tempo stesso presentata sotto la forma neutra ed imparziale della lista burocratica, della casella da barrare nella richiesta di autorizzazione alla missione di ricerca all’estero.

Liste e mappe diventano snodo fondamentale: compilate da chi, ad uso di chi, per quanto tempo e con quale metodo, restano dettagli difficili da rintracciare. L’asimmetria di potere che vi si racchiude è duplice: da un lato c’è quella tra chi produce queste carte e chi si trova a fruirne; dall’altro tra chi disegna la carte e chi abita, lavora e produce conoscenza in Paesi classificati insicuri.

Qualche tempo fa dalla Mauritania si levarono critiche per il mantenimento del Paese nella zona rossa in cui France-Diplomatie sconsiglia ogni tipo di viaggio – nonostante il miglioramento del quadro di sicurezza domestica vantato dal Paese africano. A fronte degli attacchi jihadisti che hanno mietuto centinaia di vittime in Europa, nessuno nel Sud del mondo ha prodotto mappe indicanti Francia o Belgio come Paesi a rischio: ancorare la pratica della ricerca a queste vistose asimmetrie equivale a consegnare la produzione di conoscenza alla riproduzione di relazioni di potere, senza indagarle.

Il secondo concetto che stride con l’articolato e multiforme processo di ricerca è quello di rischio: da calcolare, prevenire e minimizzare. Applicata ai più svariati ambiti della realtà sociale, economica e politica, l’idea di rischio rappresenta l’estrema propaggine del culto delle tecnocrazie, legittimate in nome di una supposta oggettività del dato numerico, processabile tramite algoritmo: una evidenza tecnica e quindi non politicamente sindacabile, scrutinabile, appellabile. Ogni decisione viene comodamente delegata al calcolo attuariale, e sanzionata in base alla propria rischiosità che virtualmente incide sul singolo evento o individuo (Louise Amoore parla di “calcolo immaginativo della possibilità”). Queste computazioni tendono ad orientare la nostra percezione del pericolo verso quegli scenari che si realizzano con bassa probabilità ma con ricadute catastrofiche, distogliendoci dagli scenari più probabili e meno drammatici.

Introdurre il calcolo del rischio, d’altro canto, significa introdurre la nozione di protezione e assicurazione, e qui si apre il sipario su un fiorente mercato di offerte che si sta sviluppando nel mondo del business (dove il duty of care può essere impugnato con un ricorso per negligenza contro il datore di lavoro): si profilano soluzioni tecniche e commerciali rispetto al personale dispiegato all’estero, e si va dalla sottoscrizione di codici di comportamento a polizze assicurative specifiche, da corsi e training di ogni genere a dispositivi quali bracciali che misurano lo stato di salute e trasmettono parametri e coordinate geografiche all’ufficio preposto a monitorare gli impiegati in missione in contesti a rischio.

Se le implicazioni biopolitiche di queste pratiche non possono sfuggire, non è affatto fantascientifico pensare alla diffusione nel mondo della ricerca e dell’università di regolamenti e contratti che includano clausole circa la sicurezza del ricercatore in missione. I costi aggiuntivi, va specificato, spingeranno fuori gioco le istituzioni che non potranno permettersi di uniformarsi agli standard di “ricerca sicura” che gli enti finanziatori potrebbero finire per accettare mettendosi al riparo dalla critica di indurre i ricercatori ad incorrere in pericoli sempre maggiori in aree e ambiti di frontiera. Non per caso gli schemi di ricerca meglio finanziati in Europa sono tipicamente high-risk/high-gain.

Ancorare a mappe del pericolo e calcolo del rischio possibile le attività di ricerca nelle scienze sociali significa porre ostacoli lungo il percorso di produzione di conoscenza critica, ovvero della ricerca impegnata a spacchettare e interpretare il reale mettendolo in causa. Il problema riguarda soprattutto la ricerca etnografica, e quelle tecniche che avvicinano il ricercatore al mondo, lo fanno partecipe della sua disorientante complessità, lo invitano all’immersione e quindi alla temporanea apnea, per poi costringerlo alla digestione e alla restituzione alla società di una conoscenza organica.

Già incalzato in più ambiti disciplinari dall’avanzare delle metodologie quantitative e di protocolli che diverse riviste scientifiche stanno adottando per vigilare sull’utilizzo di fonti confidenziali e anonime, l’approccio etnografico esce indebolito dal proliferare di regole e codici circa la sicurezza.

La mappatura e la classificazione dei Paesi pericolosi impone una fissità che non rispecchia la mutevolezza dei contesti studiati, pregni di conflittualità e in continuo cambiamento. Limitate da una visione stato-centrica, esse tendono a leggere l’oggetto di studio come un tutt’uno (il Paese), mentre la sensibilità e la vulnerabilità a cui il ricercatore è esposto tipicamente variano all’interno del Paese (città-periferia, nord-sud, giorno-notte) e può non essere direttamente connessa al contesto geopolitico in cui si svolge la missione di ricerca, ma a condizioni peculiari quali l’affiliazione professionale, o persino alle identità di genere, sessuale, etnica, religiosa del ricercatore stesso. O ancora, a particolari scelte intraprese in merito alle proprie connessioni relazionali e al proprio posizionamento, concetto caro all’etnografia e lungi dall’esprimersi attraverso l’immagine del ricercatore georeferenziato. Questi aspetti non sono quantificabili né interpolabili in modo meccanico con il dato che emerge dalla cartografia del pericolo e delle liste e i formulari che ne derivano.

Inoltre, così come gli algoritmi vanno gradualmente a sostituirsi al decisore politico (e non solo: si va dalle pratiche biometriche utilizzate ai controlli di sicurezza degli aeroporti alla selezione dei contenuti appropriati ammessi sui social media), il loro possibile utilizzo nell’ambito della produzione delle conoscenza e delle attività di ricerca apre a scenari di de-umanizzazione e automatizzazione di quest’ultima, con conseguente moltiplicazione degli spazi di eccezione e attivazione di meccanismi di controllo laddove la critica vede tradizionalmente la propria genesi.

La ricerca sul campo è essenziale per la comprensione del mutamento sociale e politico: nessuna codifica di dato acquisito a distanza può rimpiazzarne l’accortezza interpretativa e la capacità di trattare l’incertezza e l’ambivalenza della realtà, tanto più di realtà di conflitto e transizione. Difendere la ricerca significa difendere una società aperta, in primo luogo dall’ignoranza di chi la definisce in un linguaggio giuridico-burocratico che la obbliga a dichiarazioni senza senso, e quindi da una deriva commerciale che la riduce alla ricerca di condizioni di sicurezza per estrarre dati da contesti immancabilmente esotici e pericolosi.