«Sono per il centralismo democratico temperato», scherza Lorenzo Guerini, «è una buona posizione comune di partenza», rimbalza Matteo Orfini. Ieri pomeriggio, alla festa romana di Leftwing, il periodico dei giovani turchi – che, per dire, con l’ultima monografia sul partito regala il modellino costruibile di Botteghe Oscure – fra il vicesegretario Pd e il capofila della «ex minoranza» (definizione sua) di sinistra, il dibattito era una fitta corrispondenza di amorosi sensi. Orfini, che pure ha chiesto di ricostruire «il partito», ha fatto autocritica su uno dei must cuperliani delle primarie: «Che oggi il premier sia anche segretario del Pd rende molto più forte il governo».

E così alla fine è successo, e chi aveva occhio sapeva che non poteva che andare così: il Renzi anti-partito anti-burocrazia anti-regole ha finito per incarnare i tratti che lui stesso, nella fase 1 della sua irresistibile ascesa, aveva attribuito – spernacchiandoli – al partito, alla burocrazia e alla disciplina. Per questo, prima che per per opportunismo, la sinistra Pd, partitista fan della ’ditta’ e a volte persino nostalgica del Pci, non solo non ha contestato la «sostituzione-destituzione» (così sul manifesto il costituzionalista Azzariti) dei senatori Mineo e Chiti in commissione al senato: l’ha difesa.

Prendiamo Orfini, capoclasse della corrente che alla prossima segreteria formalizzerà l’ingresso in maggioranza e che fino a oggi distribuisce come gadget della festa la maglietta con l’immagine di Togliatti che mangia il gelato, un capino ardito che fin qui nessuna T-shirt militante aveva osato (lo stilista sardo Antonio Marras, già creativo di Kenzo, si era spinto fino alle felpe con la faccia di Gramsci), uno scherzo serio «per dichiarare chiusa la stagione dell’anticomunismo a sinistra». Orfini giudica ragionevole la sostituzione dei dissidenti: «Votare secondo disciplina fa parte del patto costitutivo di un’organizzazione. Una banale formula di rispetto reciproco. O si è un partito o si è un casino». Se non è l’elogio del centralismo democratico poco ci manca. Lui, fin qui, ha votato parecchie volte no alla ’linea’: alla scelta di Marini per il Colle, alle larghe intese di Letta, all’abolizione del finanziamento ai partiti, all’Italicum. Ma in direzione o nel gruppo parlamentare, ovvero nei famosi «organismi dirigenti»: poi in aula si è allineato. Spiega: «È la la ragione per cui il Pd non si è sciolto». Quel Pd che prima di essere il quasi-monolite di oggi, con un segretario-bomber che traina il partito al 40,8 per cento , era «il più grande gruppo misto della storia della Repubblica», come spiegava ai suoi Gianni Cuperlo durante i drammatici giorni dei 101 franchi tiratori che impallinarono Prodi.

Oggi il vecchio centralismo democratico è tornato caro a tutti; soprattutto utile. Non solo agli ex dc renziani come Guerini, o ai devoti a Togliatti, ma anche a quelli che credono nel partito all’americana. «Nell’autunno 2012 ho sostenuto il semipresidenzialismo, di cui resto convinto. Ma poi in aula non mi sognavo di votare diversamente dal partito», ricorda il veltronian-renziano Stefano Ceccanti, ex senatore. Con buona pace del vincolo di mandato? «Ma quello vale in aula dove sei rappresentante del popolo, non in commissione dove sei scelto da un partito: la commissione è un luogo di confronto tra gruppi, non tra singoli atomi. E poi oggi la posizione dei senatori dissidenti finisce per essere il plusvalore di Berlusconi. Che potrebbe coprire le sue posizioni dietro i dissensi del Pd».

Intanto le «ex minoranze» si preparano alla gestione unitaria del partito. Facendo i conti con l’«uomo solo al comando» che non piaceva a Bersani e che ora i bersaniani si faranno piacere. Duro da digerire anche per i turchi. Le due correnti, che hanno rapporti poco cordiali, non hanno indicato un nome unitario per la presidenza dell’assemblea, dopo aver bruciato con veti incrociati lo stesso Orfini, Epifani, l’ex lettiana Paola De Micheli. «Se spetta alla minoranza va dato a Civati. Se è ’gestione unitaria’, spetta alla maggioranza, quindi al segretario farne il nome», è il sillogismo di Orfini. Conclusione: oggi all’assemblea dell’Ergife sarà Renzi a tirare fuori il coniglio dal cilindro. Incarnando una delle massime del Libretto Grigio dell’Apparato, bibbia autoironica del giovane turco: «Queste sono le nostre idee. Se non vi piacciono possiamo cambiarvi».