“Però che devo fare.. la carne è carne”. Con queste parole si chiude una conversazione intercettata di uno dei ragazzi coinvolti in quello che è ormai noto come lo “stupro di Palermo”. È in relazione a questa frase che Fab, pagina Instagram legata alla testata F, ha lanciato in questi giorni la campagna di protesta contro la violenza sulle donne #iononsonocarne, cui hanno aderito anche alcuni personaggi del mondo dello spettacolo, invitando a “metterci la faccia” con un selfie.

A quale carne si stava riferendo il ragazzo che ha usato queste parole? E a quale si riferiscono le persone che fanno proprio e diffondono questo hashtag? In effetti, le parole in oggetto sono parte di una frase più ampia, in cui leggiamo anche “eravamo cento cani sopra una gatta… mi sono schifato un poco… però che devo fare…”.

La persona stuprata è gatta, perché agli occhi di chi fa violenza questo accentua e insieme giustifica il contrasto potere vs. disponibilità, ma avrebbe potuto essere lei stessa cagna, o vacca, o troia – le femmine animali con cui più di frequente si stigmatizzano le donne dal comportamento giudicato “indecente. “Ficimu un macello”, dice poi su Tik Tok un altro dei responsabili dello stupro.

Tutto, in questo macello, si trasforma in carne. È carne quella di chi, stuprando, dice di aver seguito i suoi istinti più bassi, perdendo l’uso della ragione e diventando “bestia” (che è anche l’insulto ricorrente rivolto ai responsabili nei commenti all’accaduto). È carne quella della vittima, come tale resa violabile e consumabile.

L’hashtag della campagna riprende il riferimento alla carne, allo scopo ovviamente opposto: ribelliamoci alla violenza che ci riduce a pezzi di carne, noi non siamo carne. Scrivere #iononsonocarne per sensibilizzare sul tema e dirlo per giustificare uno stupro, lo ribadiamo, non si equivalgono negli intenti, eppure l’orizzonte concettuale nel quale le due logiche diventano leggibili è il medesimo; lo slogan contro lo stupro ne capovolge, ma non ne scardina i presupposti. Siamo carne/non siamo carne è una declinazione ulteriore del ritornello siamo animali/non siamo animali che permea la maggior parte delle narrazioni della cultura
occidentale: il sottotesto resta l’opposizione umanità/animalità, con la variante preda/predatore, che rimanda alla caccia oltre che alla macellazione.

federica timeto
Ma di chi è, davvero, questa carne? Perché è così scontato che essere carne significhi automaticamente essere violabile e consumabile? E perché noi non siamo carne? Noi chi?

Sono trascorsi più di trent’anni dalla pubblicazione di Carne da Macello (1991, trad. it. 2021, VandA) di Carol Adams. In questo che è considerato uno dei testi fondamentali del femminismo antispecista, pur coi limiti che oggi rivela, Adams analizza i “testi della carne” che rendono possibile la violenza contro gli animali e quella contro le donne, e spiega come si diventa carne nel regime eteropatriarcale.

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La violenza contro i corpi animalizzati, e come tali anche sessualizzati, razzializzati, disabilitati, funziona per desoggettivazione, alienazione, frammentazione e consumo, ed è in questi passaggi che si crea lo spazio che allontana la vita animale dalla “carne”. In questo vuoto, i corpi animali in carne e ossa, ma anche in pensieri, linguaggi e desideri, diventano i referenti assenti: nella fattispecie, perché sono usati come come metafore, e tuttavia anche perché, nella carne, gli animali sono letteralmente morti e consumati, e annientati in termini – massa che li annullano come soggetti di vita.

Se consideriamo l’animalizzazione come una relazione sociale connessa al privilegio della appartenenza di specie, invece che vedere la “bestialità” come una proprietà dell’essere animale, ci accorgiamo che chiunque, umano o meno, può potenzialmente essere allontanato dal polo dell’umano e avvicinato al polo animale così da essere consumabile a vari gradi, sia materialmente che simbolicamente.

Comprendere lo specismo –esplicito e implicito – di chi dice siamo carne/non siamo carne, significa chiedersi cosa porta a considerare un dato di fatto indiscusso che l’animale sia meno e sotto di, sia carne da usare e mangiare, e domandarsi insieme a quali altre dinamiche funziona lo specismo che animalizza per degradare, animali umani e non.

Nei macelli reali, i corpi non umani sono uccisi e smembrati, i corpi umani sono sfruttati, esposti a rischi e lasciati senza tutele. Nei macelli simbolici, a essere diversamente animalizzati sono i corpi non conformi, non normativi, non bianchi, non egemonici.

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Dire che la carne è carne, e dire che noi non siamo carne, è possibile solo in una cultura ancora profondamente specista, anche se una frase giustifica e l’altra condanna. Ovviamente non si tratta di stabilire quale forma di oppressione sia più grave, quale violenza più inaccettabile, perché questo fa ancora il gioco dello specismo, che funziona sempre per gerarchie di valore, ma di capire la logica che sottende queste relazioni per comprendere sia le differenze sia le intersezioni fra esperienze specifiche e differenti, seppure interconnesse.

Pensare che l’umano si elevi sull’animale, la ragione sui corpi, la civiltà sulla natura è specismo, e lo specismo richiama e rafforza sempre molteplici discriminazioni. Nominare diversamente le relazioni, invece che riproporre le dicotomie soltanto invertendole, può essere un primo passo per contrastare la logica che recide i legami fra gli animali umani e non umani; fra la carne e l’animale morto da cui proviene; fra la pratica alimentare e la pratica politica; fra l’ideologia specista e l’inferiorizzazione dei corpi non a norma che portano “il marchio” della bestia.

Denaturalizzare lo specismo e ricondurlo alle dinamiche sociali che lo nutrono consente di riconoscere valore alla vita animale e ascoltare chi, da posizionamenti diversi ma consapevoli del funzionamento subdolo e onnipervasivo dello specismo, lotta per contrastare le discriminazioni e le forme di violenza che l’animalizzazione nutre e perpetua.