C’è grande preoccupazione in Argentina per il possibile accordo con la Cina per la produzione su larga scala di carne di maiale. L’allarme è scattato il 6 luglio, quando è stata resa nota una comunicazione tra il ministro degli Esteri Felipe Solá e il ministro del Commercio cinese Zhong Shan relativamente a un’«associazione strategica» tra i due paesi per la produzione di «9 milioni di tonnellate di carne porcina di alta qualità». Ossia 14 volte in più della carne prodotta attualmente.

UN ACCORDO DESTINATO a far felici entrambi i governi: quello argentino spinto dalla necessità di rimpinguare le esangui casse dello Stato per ripagare il suo debito e quello cinese interessato a garantirsi un approvvigionamento sicuro di carne di maiale dopo la crisi provocata dalla diffusione della peste suina africana in Cina, che pare abbia già causato l’abbattimento di 180-250 milioni di maiali. Un massacro – denunciano gli ambientalisti – realizzato per di più con metodi estremamente crudeli (come bruciare o seppellire vivi gli animali).

Alla notizia del possibile accordo, un gran numero di ecologisti, militanti sociali, ricercatori, artisti, giornalisti ha dato vita a una campagna che in poco tempo ha raccolto oltre 100mila adesioni. «Non vogliamo trasformarci in una fabbrica di carne di maiale per la Cina», scrivono i firmatari della petizione, ponendo l’accento sugli enormi costi sanitari e ambientali (anche in termini di emissioni di gas climalteranti) di una simile iniziativa: gli allevamenti intensivi, sottolineano, rimandano a un modello di agribusiness «crudele e insostenibile», non solo provocando contaminazione sul piano locale e regionale, ma anche trasformandosi in «focolai di nuovi virus altamente contagiosi e, dunque, nella culla di nuove pandemie».

CON QUESTO ACCORDO, prosegue la petizione, l’Argentina volgerà ancor di più le spalle a quel modello di sovranità alimentare (basato sulla produzione agroecologica di alimenti su piccola scala per il mercato locale) reso ancor più urgente in tempi di Covid, di disuguaglianze sociali e di crisi ambientale e climatica.

UN MODELLO a cui già aveva inferto un colpo durissimo, nel 1996, l’introduzione nel paese della soia transgenica – quando Felipe Solá, ancora lui, era segretario dell’Agricoltura, dell’Allevamento e della Pesca -, con conseguenze ben note: l’espulsione di piccoli produttori, l’aumento dell’uso di veleni chimici del 1400%, la diffusione della monocoltura di soia nel 60% della terra coltivata nel paese e un tasso di deforestazione tra i peggiori dieci al mondo. E malgrado il Ministero degli esteri si sia affrettato a precisare che verrà fatto tutto in modo «prudente» e con una «tecnologia di punta per ridurre l’impatto ambientale», non c’è dubbio che tale quadro sia destinato sensibilmente ad aggravarsi con la vertiginosa crescita dell’allevamento suino prevista dall’accordo, la quale richiederà un ulteriore aumento delle monocolture di soia e di mais transgenici per la produzione di mangimi.