La sera del 6 gennaio 1945, in uno storico caffé di Madrid, venne assegnato per la prima volta un premio letterario istituito dalla Editorial Destino in memoria del suo caporedattore Eugenio Nadal e che, si diceva, sarebbe probabilmente andato al cinico e antisemita César González Ruano, autore gradito alla dittatura. A suscitare l’entusiasmo unanime dei giurati fu, invece, un manoscritto dal titolo sibillino – Nada – presentato all’ultimo momento da Carmen Laforet, sconosciuta studentessa di ventitré anni nata a Barcellona e cresciuta in un’isola delle Canarie, che l’inattesa conquista del  premio proiettò verso un successo senza precedenti, consacrato dall’approvazione della critica, dalle lodi incondizionate di grandi vecchi come Azorín o Juan Ramón Jiménez, e anche da vendite inconsuete per l’editoria dell’epoca.

Nessuno, però, poteva prevedere che quel romanzo giovanile sarebbe diventato un classico imprescindibile, ininterrottamente ristampato e tradotto in tutto il mondo, compresa l’Italia dove arrivò nel 1948, per riapparire a distanza di anni presso editori diversi e approdare adesso al catalogo di Cliquot, nella bella traduzione Barbara Bertoni (pp. 288, € 20,00) corredata da una brillante prefazione di Elvira Lindo. La fortuna di Nada fu tale che, nonostante i quattro romanzi successivi, le belle raccolte di racconti, le cronache di viaggio e le centinaia di articoli firmati nel corso degli anni, per molto tempo Laforet venne considerata l’autrice di un solo libro, il cui esito finì paradossalmente per spingerla verso il silenzio e la rinuncia alla scrittura, suggellata infine da una vera e propria grafofobia, unica risposta che seppe dare alle attese generate da un simile esordio.

Viene da chiedersi, oggi, come sia stato possibile che la paranoica censura franchista abbia concesso a Nada il visto per la pubblicazione, negato a libri ben più innocui. Il testo, infatti, ci rimanda a un dopoguerra amarissimo, e, benché non parli esplicitamente di guerra e di politica, le fa «gravare sull’intera vicenda come un minaccioso silenzio» – nota Mario Vargas Llosa in una sua analisi del romanzo pubblicata nel 2004, subito dopo la morte dell’autrice. Nada è uno specchio scuro in cui si riflettono una collettività stremata e una città in rovina, mentre il sordido appartamento barcellonese di calle de Aribau, dove la famiglia paterna ospita di malavoglia l’orfana Andrea, diventa simbolo di una Spagna lacerata da violenze, vendette e rancori. La spinta fratricida della guerra civile, inoltre, sembra perpetuarsi nei furibondi scontri fra gli zii di Andrea: Ramón, sadico seduttore, e il delirante Juan, che massacra di botte la moglie Gloria.

La protagonista evade da questo allucinato microcosmo grazie a lunghi vagabondaggi per le vie cittadine, all’amicizia con la ricca e vivace Ena e agli incontri con i compagni di Università, che la considerano «strana», come suggerisce Carmen Martín Gaite nel suo saggio Desde la ventana, del 1987, sottolineando il contrasto tra la figura di Andrea e i modelli femminili imposti dal franchismo. Pronta a disintegrare il catechismo del regime attraverso lo spassionato e tagliente racconto di ciò che vede intorno a sé, Andrea inaugura quello che Laforet chiamerà il Mondo del Gineceo, «che non ha ancora trovato il suo linguaggio», ma che si espanderà con sommessi accenti femministi fino a diventare il nucleo della sua narrativa e a influenzare un’intera generazione di nuove autrici.

La «stranezza» della protagonista, che ignora il sentimentalismo e trasforma le illusioni perdute in altrettanti passi verso l’età adulta, nasce dalla sua ansia di libertà e da un istintivo anticonformismo, ma anche dal ruolo di testimone che Laforet le assegna. La sua è una presenza silenziosa e mai irrilevante, che fa da trait d’union fra le storie altrui e sollecita l’intervento del lettore, perché Nada è il primo romanzo spagnolo costruito sul frammento e sul non detto, così da annunciare il distacco sia dalla tenace sopravvivenza del costumbrismo ottocentesco, sia dal nascente e spesso manicheo realismo sociale. E ha ragione Miguel Delibes, quando osserva che la struttura e lo stile del romanzo non rispondono a influenze precise e rompono con il passato in modo così originale e deciso da «evidenziare finalmente un’aspirazione al rinnovamento delle tecniche narrative, che pochi anni dopo sarà portato avanti da autori come Robbe-Grillet, Duras o Butor».

Gli ambienti e i personaggi (a cominciare dalla protagonista, della quale non conosciamo, se non per sommi capi, il passato e l’aspetto) sono disegnati con pochi rapidi tocchi, sufficienti però a evocare una Barcellona spettrale quanto la Comala di Juan Rulfo, a introdurci tra le pareti muffose di calle de Aribau e a far emergere un attendibile paesaggio sociale. La voce asciutta di Andrea non giudica, non ha tesi da dimostrare o verità da rivelare, ma sa mettere abilmente in luce i pregiudizi e la ferocia di una classe media incalzata dalla miseria, illustra con sottile ironia le smanie dei ricchi giovanotti tentati dalla bohème e ci indica crepe e fessure nell’apparente serenità dei ricchi borghesi.

Come gran parte della narrativa immediatamente posteriore alla sconfitta della Repubblica, Nada è un romanzo pessimista, a tratti brutale e ancorato a un contesto ben preciso, ma capace di superare il localismo di altri autori spagnoli dell’epoca e di adottare un’ottica più ampia, che lo rende singolarmente attuale. A coronarlo è un finale aperto e non del tutto infelice, legato allo sguardo di una generazione incolpevole che, dopo aver vissuto la guerra durante l’infanzia, non intende rinunciare a un’idea di futuro, anche se a volte sembra, come fa presente il titolo, che nulla, proprio nulla sia destinato a cambiare.