Almeno sei persone sono rimaste uccise e dieci ferite domenica 30 luglio a Mogadiscio, capitale della Somalia, quando un’autobomba è esplosa in una strada trafficata.

Altri 23 militari dell’Unione Africana (missione Amisom) – oltre 39, secondo il gruppo jihadista Al Shabaab che ha rivendicato le stragi – sono morti in un attentato dinamitardo, sempre nella stessa giornata, nel sud del paese.

La Somalia un paese privo di una reale autorità centrale dopo la caduta del presidente Siad Barre nel 1991, sta vivendo un’ennesima crisi umanitaria. Balcanizzata in diversi territori (Puntland, Somaliland), devastata dalla carestia e costantemente flagellata dai gruppi armati jihadisti.

Da diversi mesi le Nazioni Unite continuano a richiamare l’attenzione mondiale sulla «catastrofica carestia» che sta colpendo la Somalia, lo Yemen, la Nigeria e il Sud Sudan.

Cosa accomuna questi paesi? Sono tutti paesi tormentati da guerre. Se da una parte, infatti, la mancanza di acqua è il principale fattore di una crisi alimentare disastrosa – peggiore di quella del 2011 che causò 260mila vittime – risulta altrettanto decisivo lo stato di guerra permanente che flagella il paese da oltre vent’anni.

Il gruppo terroristico jihadista Al Shabaab (legato ad Al Qaeda) è una delle principali cause. I miliziani somali colpiscono obiettivi governativi e della missione dell’Unione Africana (Ua) con una frequenza impressionante e costringono le popolazioni sotto il loro controllo (principalmente nel sud del paese) a rimanere nei loro villaggi, utilizzandole come scudi umani contro i bombardamenti americani.

In un recente reportage Jason Burke, corrispondente del The Guardian, afferma che «gli islamisti hanno imposto il divieto alle organizzazioni non governative per l’assistenza umanitaria nelle aree che controllano, obbligando centinaia di migliaia di persone a morire di fame».

Il mese scorso uno studio di Save the Children ha evidenziato come «il tasso di mortalità infantile stia rapidamente crescendo in maniera esponenziale per fame, malattie e colera».

Se la crisi umanitaria appare sempre più compromessa, la situazione della sicurezza interna non è sicuramente migliore con numerosi attentati in tutto il paese e con la ripresa anche di episodi di pirateria.

La stessa divisione tra le file dei miliziani con una frangia separatista – guidata dal somalo Abdulkadir Mumin, che ha giurato fedeltà allo Stato Islamico nel 2015 – ha inasprito ancora più le lotte intestine tra miliziani jihadisti e gli attacchi contro il governo di Mogadiscio e contro i 22mila uomini della Ua.

L’agguato di domenica arriva proprio il giorno successivo alla conferenza tra il governo somalo e le forze della Ua per il progressivo abbandono del contingente di pace, previsto nel 2018, dopo dieci anni di permanenza.

Con l’elezione, lo scorso febbraio, di Mohamed Abdullahi Mohamed, soprannominato Farmajo, a presidente, la Somalia sperava di poter avviare una progressiva stabilizzazione.

La dura offensiva contro il gruppo jihadista lanciata da Mogadiscio, con il supporto militare Usa, non ha portato i risultati sperati. L’intensificarsi di scontri e bombardamenti, infatti, ha spinto i miliziani di Al Shabaab a sconfinamenti ed attacchi verso il Kenya: causando una progressiva destabilizzazione di tutta l’area settentrionale ormai al di fuori del controllo di Nairobi.

Il presidente somalo ha richiesto più volte un intervento della comunità internazionale per frenare una crisi umanitaria che colpisce oltre tre milioni di somali. La capacità o la volontà di risposta dei paesi occidentali ad un disastro umanitario annunciato sembra, però, del tutto inadeguata.