«Non è possibile immaginare che il 31 dicembre, al termine della proroga dei provvedimenti straordinari adottati per l’emergenza Covid, circa 700 persone che da due anni sono fuori dal carcere per licenze straordinarie svolte senza incorrere in alcuna infrazione, né penale né disciplinare, tornino a dormire in carcere come prevede il loro status di semiliberi». Stefano Anastasia, portavoce dei Garanti territoriali dei detenuti, mette la questione sul tavolo delle priorità di quanti ieri si sono riuniti a Roma per discutere di «Dignità e reinserimento sociale, quali carceri dopo l’emergenza?». Anastasia rivolgendosi al Parlamento ha chiesto un «atto di giustizia» affinché venga valorizzato un percorso di reinserimento sociale avviato causa forza maggiore ma finito col diventare un esempio virtuoso di pena non meramente afflittiva, e punta il dito contro l’attuale legge sulle droghe responsabile di gran parte del sovraffollamento.

Un approccio questo largamente condiviso dalla Conferenza dei Garanti delle persone private della libertà (che conta 72 Garanti, di cui 16 regionali e di province autonome, 6 provinciali e di aree metropolitane e 50 comunali) e dalla Conferenza nazionale del volontariato della Giustizia (presieduta da Ornella Favero) che hanno organizzato l’evento a Palazzo Valentini per fare il bilancio di due anni di pandemia e immaginare una fase di transizione che porti le carceri oltre l’emergenza, tenendo conto delle proposte per la riforma del sistema penitenziario messe a punto dalla commissione ministeriale presieduta dal costituzionalista Marco Ruotolo.

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La quarta ondata del Covid non si è ancora conclusa neppure per detenuti e agenti (su 55 mila reclusi e 37 mila poliziotti circa, ieri c’erano «1.329 positivi tra i detenuti e 1.444 tra il personale negli istituti»); i colloqui non sono ancora ripresi in presenza come prima della pandemia e molti reclusi sono ancora negli istituti dove sono stati spostati per diminuire il sovraffollamento. Problemi che si sommano a condizioni strutturali quasi disastrose. Eppure, fa notare il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, «rispetto ai numeri, alle regole, alla magistratura di sorveglianza, agli operatori e alla nuova dirigenza, vedo una tendenza del Dap a presentarsi come se tutto fosse funzionante e richiedesse solo piccole oliature. Invece c’è bisogno di un cambiamento amministrativo prima ancora che ideologico su alcuni punti».

E mentre, fuori dal convegno, il “pacifista” Matteo Salvini coglie l’occasione per amplificare le pretese di certi sindacati di polizia chiedendo di fornire pistole taser agli agenti penitenziari e di spostare il Corpo alle dipendenze del Viminale, Mauro Palma parla insolitamente di un «sindacalismo distorto» nel sistema penitenziario. Un «sindacalismo difensivo – dice evocando le torture sui detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere – che non denuncia mai le violazioni anche gravi che talvolta si consumano nei confronti di coloro che dovrebbero essere tutelati». «Proprio perché nutro grande stima nei confronti del Corpo di polizia penitenziaria – puntualizza al manifesto – penso che questa distorsione non giovi a un pensiero democratico, e si rischi di accettare un certo modo di interpretare la rappresentanza».

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A parlare di «superamento delle contrapposizioni» è la stessa ministra di Giustizia Marta Cartabia che nel suo intervento rivolto anche ai parlamentari e ai magistrati di sorveglianza presenti al convegno sottolinea che «il tema della dignità in carcere va insieme a quello sulla sicurezza». «La videosorveglianza ad esempio fa bene all’uno e all’altro. Dobbiamo essere concreti e lavorare in sinergia. Il tempo dell’emergenza pandemica – aggiunge – è stato anche un tempo di innovazione e sperimentazione. Il video-colloquio, ad esempio, nelle carceri in cui è stato sperimentato ha portato beneficio ai detenuti ma anche a tutto l’ambiente carcerario. Servono – conclude – interventi di sollievo concreto subito».