È tornata la calma apparente, dopo le rivolte e le proteste scoppiate domenica a proseguite a singhiozzi e con modalità e intensità diverse in una cinquantina di istituti penitenziari italiani a causa delle restrizioni imposte per prevenire l’epidemia nelle celle. A parte qualche “battitura” e qualche recluso ad Avellino che si è rifiutato di rientrare in cella, mentre a Foggia si cercano ancora sei evasi latitanti, per il resto si cerca di tornare ad una normalità che di normale non ha nulla.

Fortunatamente, nella tragedia che si è sfiorata – e consumata con 13 detenuti morti, in totale – è scaturita la prima azione positiva del Dipartimento di amministrazione penitenziaria: il nuovo Direttore generale Detenuti e trattamento, Giulio Romano, in carica dal 14 febbraio scorso, ha rotto un tabù comunicando ieri ai direttori degli istituti penitenziari il primo via libera all’uso della posta elettronica nella comunicazione tra detenuti e familiari, e anche all’uso di Skype per le lezioni scolastiche e universitarie in videoconferenza e per lo svolgimento degli esami e dei colloqui tra docenti e studenti reclusi.

«Durerà per il solo periodo di emergenza Covid19, ma – commenta il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia – è la fine di un tabù: finalmente i detenuti entrano nel mondo digitale». Una novità che sicuramente alleggerirà almeno in parte il senso di oppressione e morte che si può respirare dentro le celle in questi tempi bui. Ecco perché il tuttora capo del Dap Francesco Basentini ha avvertito con una circolare provveditori regionali, direttori e comandanti dei carceri: «Allo stato non è possibile escludere una ripresa delle agitazioni». E ha raccomandato loro massima attenzione per prevenire altri disordini e «rendere impossibile che si verifichino ancora episodi di danneggiamento che possono compromettere le strutture dell’amministrazione».

Sui 13 morti – 9 a Modena, 3 a Rieti e uno a Bologna, non due come erroneamente comunicato dal Garante dei detenuti, tutti sembrerebbe per overdose di metadone e farmaci rubati dagli ambulatori durante le rivolte – è calato invece il silenzio delle istituzioni ma anche del mondo del volontariato carcerario, in attesa che a stabilire certezze sui decessi sia la magistratura. Eppure le ipotesi dal sapore complottistico si fanno largo nelle piazze virtuali. Ma non c’è alcun bisogno di immaginare altre violenze, dietro quelle morti che di per sé già mostrano tutta la violenza di un regime che non cura, non «rieduca», non costruisce le condizioni per prevenire le recidive.

Secondo Elia De Caro, responsabile Antigone dell’Emilia Romagna, le vittime di Modena e Bologna sarebbero tutti giovani nordafricani (secondo il Garante nazionale dei detenuti, solo una vittima è italiana e ben tre erano in attesa del primo grado di giudizio; il più giovane aveva 29 anni e il più adulto 42). Nella casa circondariale di Modena, dove ora sono rimasti 200 detenuti, nutriti con pasti che vengono da fuori perché non ci sono più cucine né servizi, prima della rivolta di domenica il 64,9% dei reclusi era straniero, il 35% tossicodipendente, il 55% in osservazione psichiatrica e non c’era un’«articolazione per la salute mentale».

Il Dirigente medico del Ser.D. di Bologna, Salvatore Giancane, non si stupisce che si tratti di detenuti nordafricani perché, dice, «generalmente sono poliassuntori di sostanze, quindi senza tolleranza agli oppiacei, quelli più a rischio di morte con il metadone». L’effetto letale può avvenire «tra le 5 e le 12 ore dopo l’assunzione».

Potrebbe essere una spiegazione al fatto che quattro rivoltosi sono morti dopo il trasferimento in altri istituti. «Probabilmente quando sono stati caricati sui cellulari non presentavano sintomi preoccupanti, soprattutto se oltre agli agenti in quei momenti non erano presenti medici. Giunti a destinazione hanno iniziato a stare male, in qualche caso sono morti nel sonno (favorito dall’effetto del metadone stesso), in qualche caso (come ad Ascoli) se ne sono accorti. Dalla stampa locale risulta anche se ne siano accorti gli agenti che stavano trasferendo due detenuti a Trento, che proprio per questo si sono fermati a Verona». «Il metadone in carcere – conclude il dott. Giancane – è stata una conquista di civiltà, non vorrei che da qui si progettassero passi indietro».