Un’altra fumata nera, la decima. Il congresso forse più screditato della storia del Perù, dopo tre settimane di inutili negoziati, non ha ancora raggiunto l’accordo sulle elezioni anticipate, spingendo il paese sempre più nel caos. L’ultima delle dieci proposte presentate a cadere sotto la mannaia dei parlamentari è stata quella avanzata da Perú Libre, l’ex partito di Pedro Castillo, che prevedeva già per il prossimo luglio elezioni complementari (con le nuove cariche, cioè, in vigore solo fino alla fine dell’attuale legislatura nel 2026), insieme a un referendum sull’Assemblea costituente.

UN COMPROMESSO mirato a unire la bandiera delle sinistre – quella cioè del referendum costituzionale – all’offerta di elezioni complementari, con conseguente possibilità di una rielezione immediata dei parlamentari uscenti: musica per le orecchie dei tanti esponenti del congresso decisi, alla faccia del «que se vayan todos», a conservare la poltrona il più a lungo possibile. Ma neppure tale possibilità è riuscita a sedurre il congresso: solo 47 i voti a favore, molto al di sotto degli 87 necessari. Qualunque proposta che preveda un referendum costituzionale si infrangerà del resto contro il muro delle destre: per il fujimorismo, semplicemente, la popolazione non ha alcun diritto a esprimersi a favore o contro la convocazione di un’Assemblea costituente.
L’unica proposta che ora rimane è quella presentata dalla stessa presidente Boluarte: elezioni generali l’8 ottobre e insediamento della nuova presidenza il 31 dicembre. Ma un’iniziativa simile era stata già avanzata dal presidente della Commissione costituzionale, il fujimorista Hernando Guerra García, e puntualmente bocciata. Difficile che quella di Boluarte possa avere migliore fortuna, tanto più che la presidente propone che sia il nuovo congresso a realizzare una «riforma totale della Costituzione».

IL TEMPO, tuttavia, sta per scadere. Come qualsiasi altra riforma costituzionale, la legge sulle elezioni anticipate richiede l’approvazione dei due terzi del congresso in due legislature consecutive. E quella attuale scadrà il 9 febbraio. Passata quella data, non ci sarà più nulla da fare, a meno che la presidente non si decida a dimettersi, come le chiede di fare non solo la schiacciante maggioranza della popolazione ma anche un numero crescente di parlamentari.
Ma Boluarte non ne ha nessuna intenzione, forse nel timore – come sostiene César Hildebrandt, uno dei più influenti giornalisti peruviani – di venire arrestata, giacché tutte le autopsie realizzate sulle vittime della repressione, senza alcuna eccezione, dimostrano che «i proiettili provengono dall’armamento dell’esercito e della polizia».

UNA SITUAZIONE, quella della presidente, che si è ulteriormente aggravata dopo l’assassinio del 55enne Víctor Raúl Santisteban, la prima vittima della repressione nella capitale: la versione sostenuta dalle forze dell’ordine che a ucciderlo fosse stata una pietra lanciata da un manifestante è infatti naufragata grazie alla diffusione di una serie di video che mostrano il momento esatto in cui Santisteban è colpito alla testa da una cartuccia di gas lacrimogeno lanciata a cortissima distanza da un agente di polizia.
Neppure la rinuncia di Boluarte, spontanea o obbligata che sia, risolverebbe comunque la crisi in maniera automatica: a prendere il suo posto sarebbe infatti il presidente del Congresso, il fujimorista José Williams – eletto grazie alle solite divisioni suicide tra le sinistre -, con il rischio che il paese finisca dalla padella nella brace. Ed è proprio per scongiurare tale scenario che i manifestanti chiedono, insieme alle dimissioni di Boluarte, anche quelle dei vertici parlamentari e che, pure all’interno del Congresso, sono iniziate le manovre a favore di un’eventuale mozione di censura (con conseguente rimozione) di Williams.

E MENTRE TRAMONTA miseramente qualsiasi possibile soluzione alla crisi, nel paese continuano mobilitazioni e blocchi stradali, contro ogni ipotesi di nuove elezioni con Dina Boluarte al governo, senza Assemblea costituente e con gli stessi partiti. «Continueremo a lottare anche per tutto l’anno», hanno avvisato i comuneros di Cusco.