In simultanea con l’edizione originale angloamericana esce anche in Italia l’ultima fatica di Loïc Wacquant, sociologo francese ormai da tempo di stanza negli Stati Uniti, come sa chi ha apprezzato il delizioso Anima e corpo (2000, subito tradotto da Derive & Approdi, meriterebbe una riedizione). Grazie al lavoro della curatrice e traduttrice Sonia Paone, che con Agostino Petrillo firma anche l’introduzione, è ora disponibile Bourdieu va in città. Una sfida per la teoria urbana (Ets, pp. 268, euro 24). Si tratta di un libro ambizioso e denso, teso a un «chiarimento epistemologico» che inevitabilmente seleziona lettori colti ed edotti negli studi urbani e nelle scienze storico-sociali. Un libro felice e ricco, dunque fondamentale, che dovrebbe essere letto e discusso da ricercatori, giornalisti e militanti. Nel breve spazio di una recensione non si può riassumere un’opera che regala analisi, stimoli e suggerimenti: si possono solo ricapitolare le tre mosse che orientano la sintesi di decenni di ricerche di Wacquant sui terreni delle metropoli neoliberali.

IN PRIMO LUOGO, si riporta alla luce quella che Mike Savage ha definito la «perduta sociologia urbana» di Bourdieu, antico e sempre attuale maestro di Wacquant (dal loro dialogo scaturì nel 1992 Risposte, per Bollati Boringheri). Sia negli studi della fase algerina (come Lo sradicamento, 1964 – scritto con Abdelmalek Sayad, e ora tradotto sempre da Ets con la cura di Paone), che in quelli sulle campagne francesi (il solo grande libro di Bourdieu che resta da tradurre, Le bal des célibataires, che nel 2002 raccolse tre studi precedenti sul natio Béarn) si ritrova il ruolo cruciale dell’urbanizzazione nel mutamento sociale.

Ma anche dopo l’apprendistato sociologico giovanile, la centralità dell’urbano emergeva implicitamente nella «critica sociale del gusto» che consacrò Bourdieu (La distinzione, il Mulino, 1979) e ancora più esplicitamente in uno dei capolavori della maturità, le oltre 800 pagine del collettivo La miseria del mondo (Cronopio, 1993). Secondariamente, Wacquant evidenzia come il contesto urbano permetta di ricostruire l’approccio teorico di Bourdieu in termini diversi da quelli canonici. Si tratterebbe di una «sociologia topologica» centrata su una «trialettica», espressione che sintetizza i rapporti dialettici che intercorrono, a due a due, fra «spazio simbolico» (le rappresentazioni del mondo), «spazio sociale» («categoria madre»: il sistema gerarchico e relazionale di «posizioni» socioeconomiche e culturali che informa fin nelle corporeità le diverse «disposizioni» degli agenti concreti) e «spazio fisico» (le localizzazioni, il costruito, il paesaggio). Forti omologie e inevitabili scostamenti segnano questi rapporti.

Quattro principi e figure intellettuali ispirano questa ricostruzione della teoria bourdieusiana: la rottura con il senso comune (Bachelard); l’attenzione alla storicizzazione e al dominio (Weber, più di Marx); l’approccio geometrico (Durkheim, ma anche Leibniz – nonostante le Meditazioni pascaliane di Bourdieu, Feltrinelli, 1997); l’efficacia concreta, la «realizzazione», delle categorie (Cassirer). Questa teoria, forte anche perché generatrice di approcci empirici, permette di sfuggire al senso di «dispersione» che accompagna la recente «proliferazione» di approcci alla città che ha seguito la «dissoluzione» dei paradigmi precedenti (inclusi quelli marxisti). Sfuggendo alla polarizzazione fra teoria urbana e etnografie di terreni situati (e all’altra, secante, che contrappone la dimensione simbolica/culturale e quella materiale/sociale), l’arsenale concettuale bourdieusiano viaggia fra le diverse scale analitiche e si serve – «politeisticamente» – di tutti i metodi.

Infine, questo Bourdieu effettivamente va in città attraverso la sintesi del percorso di ricerca dello stesso Wacquant. Senza indulgere alla tentazione della linearità retrospettiva, con uno sforzo autoriflessivo l’autore disegna la struttura delle sue ricerche sulla «marginalità avanzata» urbana: invita a non isolare i poveri come oggetto separato e a partire invece sempre dal contesto complessivo (l’intera città e la categorizzazione che viene dall’alto); procede quindi, con Goffmann, a cogliere la «stigmatizzazione territoriale» che ha rimpiazzato i quartieri operai e i ghetti etnici novecenteschi; propone l’«iperghetto» americano e le «periferie» europee come peculiari modalità di definizione e gestione della popolazione da parte dello Stato neoliberale. Di qui discendono i molti studi approfonditi di Wacquant sul triangolo marginalità, etnicizzazione e repressione penale (tradotti I reietti della città, Ets; per Ombre Corte Simbiosi mortale e Iperincarcerazione; Parola d’ordine: tolleranza zero, Feltrinelli), lungo la catena che connette, attraverso il campo burocratico e la strutturazione dello spazio sociale, il potere simbolico di definizione delle categorie sociali con le concrete condotte dei gruppi e dei singoli.

LE LENTI DI BOURDIEU permettono di condurre studi comparativi senza contrapporre studi «sulla» città come spazio peculiare e ricerche «nella» città come terreno di indagine fra gli altri. L’«urbano» ne esce ridefinito come ambito centrale dell’accumulazione delle diverse specie di «capitale» (economico e culturale in primis), ma anche della loro progressiva diversificazione (in «campi» dotati di una certa autonomia, si pensi al «campo burocratico» dell’insieme delle istituzioni pubbliche, ma anche ai campi della «produzione culturale») e dunque della continua contestazione, interna fra detentori di diversi capitali ed esterna da parte dei dominati senza capitali. Perché al di là delle lotte fra dominanti, Wacquant ci ricorda che la città attrae continuamente agenti dotati di «habitus» diversissimi, che nutrono le molte forme di conflitto che fanno del contesto urbano un luogo decisivo del mutamento storico.