Alla sua città natale, Gianmaria De Luca, fotografo romano di trentaquattro anni, non aveva mai dedicato attenzione. Solo una volta rientrato in Italia a causa della pandemia, dopo quattordici anni di viaggi epici, iniziatici, di formazione, che lo hanno portato on the road da Seattle alla California, in Australia, ha maturato l’idea di come rappresentarla.

IL SUO LAVORO Camera Obscura, una selezione delle cui foto sarà allestita da oggi presso la Galleria di Alessandro Vitiello (Roma, via delle Tre Cannelle 22) ha avuto diversi scenari: da Santa Maria in Portico al Rione Campitelli a santa Maria in Vallicella (la Chiesa Nuova), a San Bonaventura al Palatino.

Quello di De Luca è un modo antico di raccontare Roma, attraverso un foro stenopeico che restituisce angolature inaspettate, dall’alto delle chiese, dalle cupole dove lo skyline appare familiare e inconfondibile. Il suo è uno sguardo ricco di rimandi, intellettualistico talvolta. E le foto realizzate con la camera oscura sono gemelle della visione dell’occhio: l’immagine viene ribaltata così come si proietta sulla retina. Al cervello il compito di raddrizzarla.

La visione della città desta sorpresa, quella stessa sorpresa di Gianmaria che qui è nato, quando scoprì le sue meraviglie. Ma Camera obscura è anche un guardare indietro, alle prime fotografie, una sorta di risalita alla Ur-Photographie: la fotografia-madre. Poi la vignettatura, insita nel medium, evoca la grotta, allegoria del grembo materno, privilegiato punto di osservazione, creando un originale cortocircuito tra storia, luoghi, esperienza personale, sapienza tecnica.

Quello di Gianmaria De Luca è, insomma, un processo di agnizione, anche psicoanalitica, realizzato con l’occhio ingenuo del bambino alla scoperta delle meraviglie del mondo. Quell’occhio suggerisce una lettura della città singolare, sorprendente, ingannevole: basta una tecnica «obsoleta» e il cambio di angolazione per restituire una visione originale pregna di assonanze, echi, rimbalzi, non solo con il vissuto dell’osservatore ma con la storia della rappresentazione del paesaggio, grazie alla camera oscura, una tecnica peraltro già studiata da Leonardo da Vinci.

I POSSIBILI PIANI DI LETTURA intrecciano emozione e raziocinio, sorpresa e conoscenza, il ritrovarsi e il perdersi nella memoria di topoi noti eppure sconosciuti, che nelle foto di De Luca rimbalzano nell’abbraccio ruffiano e rassicurante di «Mamma Roma», eterna ed eterea nella monumentalità fredda delle pietre, assente la presenza umana.

Il mondo attraverso cui De Luca ci conduce è fatto di sapienza, conoscenza, tradizione: è un mondo analogico lontano anni luce dai tecnicismi del digitale. Un mondo antico, ma alla roversa. E speculare. Che impalla la visione senza che il cervello rassicurante ricomponga il puzzle rimettendo i tasselli al loro posto.

Del luogo di ripresa, l’autore allestisce una camera oscura: alla Chiesa Nuova si è arrampicato prima sulla scala del Borromini, poi su una chiocciola buia, stretta, sdrucciola, ricoperta dalla polvere della storia: per arrivare ai timpani sotto la cupola. Tre stanze dalle proporzioni generose, che regalano una visione a 270 gradi al filo dei tetti, sono diventate nell’occhio di De Luca gigantesche camere oscure, con l’eccezione di un punto: il foro stenopeico, dove grazie a una lente la messa a fuoco è migliore sulla carta ai sali d’argento.

LE DIMENSIONI dell’immagine sono mostre (9×5 metri). Carta fotografica di tale estensione non esiste, dunque De Luca impiega pannelli da affiancare con maniacale cura, onde evitare che l’immagine non combaci perfettamente ai bordi. C’è bisogno di un cavalletto su misura realizzato in loco, e di una luce speciale: si deve scegliere il mese dell’anno più favorevole, poi la settimana e infine i quattro giorni di quella settimana che garantiscano al meglio la luce comparabile per trovare l’esposizione ottimale.

Segue la mappatura dei range di illuminazione punto a punto per individuare le criticità da ovviare con le maschere: non sagome che oscurano settorialmente, bensì le mani del fotografo che, come ombre cinesi, interposte tra foro e superficie di proiezione, riducono l’esposizione delle parti più illuminate individuate con provini, disegnando la mappatura zonale del tempi di esposizione. E arriva il momento dello ‘scatto’: lo spazio perfettamente buio, illuminato da luci rosse, alle quali la carta fotografica è insensibile, è pronto.

Alla Chiesa nuova erano otto gli aiutanti impegnati a impartire i tempi di mascheratura delle singole zone durante la lunga esposizione: un lavoro di squadra, come nelle botteghe rinascimentali. Il risultato è una panoramica di 270 gradi, che nessuno ha ancora visto, perché non si è ancora trovato un luogo sufficientemente grande per accoglierlo. Resta, invece, la ricostruzione fotografica delle tre immagini unite.