Sin dal ritrovamento del corpo martoriato di Giulio Regeni, segnato dal marchio della tortura del regime egiziano, da più parti è stata evocata l’Università di Cambridge alla ricerca del dito che distoglie dalla luna lo sguardo dell’osservatore.

Osservatore che non ha intenzione alcuna di guardare in faccia la realtà. A quasi due anni da quel 3 febbraio pare che il Partito democratico e alleati siano decisi a svilire quella «verità per Giulio Regeni» che il giallo degli striscioni di Amnesty International, che ancora campeggia in molte piazze, ci ricorda essere lontana.

Questa azione è capitanata dai tweet di Matteo Renzi – che sedeva da premier al momento del ritrovamento del corpo e prima aveva sdoganato il golpista al Sisi – il quale coglie l’occasione di un quasi unanime coro mediatico per chiedersi da un lato cosa nasconda Cambridge e, dall’altro, per dichiarare tutta la sua fiducia nel presidente egiziano al-Sisi.

Diciamo svilire perché siamo davanti a una mistura di frasi altisonanti e insinuazioni, il cui risultato è gettar fumo su un banale esercizio di logica: chi può infatti conoscere la verità circa le circostanze di un omicidio meglio dell’assassino?

Se l’assassino viene perimetrato ed individuato, logica vorrebbe che lo si incalzasse per chiarire movente e dinamiche del crimine. Ora, dal momento che la procura italiana e perfino la stampa più reticente non hanno dubbi sul fatto che a torturare a morte Giulio Regeni siano stati gli apparati di sicurezza di al-Sisi, come spiegare il fatto che al regime egiziano abbiamo smesso di chiedere la verità, e abbiamo iniziato a chiederla a Cambridge?

Allo stato attuale, non disponiamo neppure di uno straccio di versione che sia filtrata dalle porte dei palazzi del Cairo sul perché le mukhabarat egiziane abbiano inghiottito Giulio Regeni la notte del 25 gennaio 2016 per restituirci solo il suo corpo martoriato ed esanime.

Da allora, chi voleva le barricate per i marò – trattenuti in India sotto accusa di omicidio – sostiene che invece nel nome della medesima ragion di stato si dovrebbe trovare il modo di mettere la sordina ai famigliari di un giovane ricercatore scientemente torturato e ucciso.

Altri, più pragmaticamente, hanno sostenuto la necessità di uscire dall’aventiniano congelamento dell’ambasciatore, e ingaggiare un dialogo con quei palazzi. Il nostro ambasciatore è così tornato in Egitto: i Regeni ne sono stati informati last-minute, il Ministero degli Esteri ha annunciato motu proprio grottesche commemorazioni, e al Cairo hanno brindato alla ‘pace fatta’, gettando nello sconforto decine di attivisti egiziani che hanno visto in tale epilogo un colpo di spugna e la fine della speranza di far luce su centinaia di casi di sparizione.

In ballo, ovviamente, ci sono gli equilibri di sicurezza nel Mediterraneo, la Libia, investimenti strategici, le aziende italiane che con l’Egitto hanno firmato contratti milionari. Avevamo scritto – all’epoca – che tale mossa avrebbe avuto senso solo se ci fosse stata ragione di ritenere imminente una svolta nel caso.

Le carte consegnate, prevedibilmente, non contenevano niente. Non solo: due mesi fa l’avvocato di riferimento della famiglia Regeni e di molte altre famiglie di desaparecidos, Ibrahim Metwally Hegazy, viene portato via mentre sta per imbarcarsi per Ginevra. Riaffiorerà in carcere, dove tuttora si trova, nonostante le pressioni delle diplomazie europee e canadesi. Matwally Hegazy non è un pericoloso sovversivo, ma un uomo a cui a sua volta è ‘sparito’ il figlio.
Si direbbe troppo perfino per un’amicizia di convenienza.

E se non bastasse, un regime ormai sicuro della propria impunità esercita indisturbato indebite pressioni sui ricercatori che si occupano di Egitto in Europa. Da ultimo, domenica il governo del Cairo ha convocato gli ambasciatori italiano, tedesco, britannico, francese, olandese e canadese, per protestare contro le critiche esplicitate dalle diplomazie occidentali circa il protrarsi della detenzione di Matwally.

Ma la questione sui media imbocca un’altra pista: governo e Pd incalzano l’Università di Cambridge e la supervisor di Giulio, Maha Abdelrahman, rea – secondo questi signori – di aver «mandato a morire» Giulio.

Al Cairo si tira un sospiro di sollievo: la Abdelrahman – che la stampa di regime dipinge come membro della fratellanza musulmana – è diventata la vittima sacrificale, il salvafaccia di una dittatura che sfoggia il suo sorriso nei viaggi ufficiali dello shopping militare per l’Europa: con tanto di presidente francese che dichiara di non aver lezioni da dare al suo omologo egiziano in tema di diritti umani.

Per sminuire lo spessore intellettuale della Abdelrahman, la si è ritratta come un’accademica farlocca e non all’altezza: una che pubblica per una casa editrice minore (che poi sarebbe l’ambita Routledge), una che è titolare – udite udite – solo di un contratto a termine: insomma una sprovvista dell’oscuro oggetto di desiderio, quel «posto fisso» grottescamente celebrato dalla commedia all’italiana, e che resta pietra d’angolo della misura del valore accademico anche nel perverso intreccio fra conservatorismo baronale e oltranzismo neoliberale.

C’è davvero da chiedersi quanta contezza ci sia, da parte di chi ha condotto le grandi inchieste per i giornaloni nostrani, della diffusa precarietà che abita il mondo del lavoro scientifico di ricerca.

Abbiamo già espresso su questo giornale tanto riserve circa i silenzi di Cambridge, quando critiche rispetto ai teoremi accusatori verso l’università inglese e la Abdelrahman. Lo ripetiamo: sta andando in scena la criminalizzazione della ricerca scientifica in sé o, quantomeno, della ricerca sul campo che presuppone la partecipazione attiva del ricercatore agli eventi da osservare e analizzare.

Il messaggio in codice è di una meschinità imbarazzante e pare annunciarci uno «state alla larga dallo studio del potere, rinunciate a cercare di far luce sulle sue dinamiche più oscure, altrimenti poi non lamentatevi se finite morti ammazzati».

Tutto questo dovrebbe renderci coscienti di un fatto soltanto: il governo italiano – assieme e non, come ci si aspetterebbe, in opposizione a quello egiziano – non ha solo rinunciato a scoprire la verità ma, nel goffo tentativo di gestirla per evitare di chiedere giustizia, ha scientemente deciso di affossarla scaricando il costo dell’operazione sulle vittime.