Il suo passo indietro era scritto da mesi, mancava solo l’annuncio ufficiale e la data che si rivela sintomatica dell’intero caso politico: quattro giorni prima del vertice Nato di Ramstein. È finito ieri il mandato di Christine Lambrecht da ministra della Difesa del governo Scholz; rassegna le dimissioni perché «l’attenzione dei media da mesi concentrata sulla mia persona difficilmente consente di discutere in modo obiettivo della Bundeswehr e delle decisioni sulla politica di sicurezza nell’interesse dei cittadini».

OGGI IL CANCELLIERE Olaf Scholz comunicherà il nome del successore, sciogliendo il nodo sulla parità: verrà rispettata se la Spd sceglierà di nominare Eva Högl, Siemtje Möller o una delle otto deputate della commissione Difesa del Bundestag. In ogni caso tempi da record per non lasciare vacante un secondo più del necessario il timone del dicastero più nevralgico del governo, cui sono affidati 100 miliardi di euro destinati al riarmo delle forze armate e l’invio delle armi all’Ucraina, a cominciare dai carri armati Leopard-2.

IN QUESTO MODO Olaf Scholz venerdì al summit nella base aerea di Ramstein potrà presentare al segretario della Difesa Usa, Lloyd Austin, la Germania epurata della sua scomoda ministra “pacifista”, la più sgradita all’amministrazione Biden, al presidente ucraino Volodymyr Zelensky e al governo della Lituania di cui la Germania rimane garante militare nell’ambito Nato. Solo così il cancelliere socialdemocratico potrà dare il via libera allo sblocco dell’invio dei Leopard necessari per contrattaccare i russi sul fronte del Donbass, che Lambrecht è stata accusata di boicottare.

Dopo la fornitura di una batteria di missili “Patriot” per la difesa aerea (come da richiesta Nato fatta anche al ministro Guido Crosetto) la cessione a Kiev dei tank più avanzati dell’Occidente dopo gli Abrams americani e i Leclerc francesi rappresenterebbe il cedimento di Berlino all’escalation chiesta dagli Usa e Zelensky.

A RIGUARDO IL RITIRO della prudente Lambrecht e l’arrivo di un successore più allineato ai piani Nato accontenta tutti gli alleati e congela, almeno per un po’, le polemiche sui ritardi nella consegna a Kiev dei blindati made in Germany. La ministra gaffeur, che aveva candidamente ammesso di non conoscere bene i gradi degli ufficiali delle forze armate, è il perfetto capro espiatorio su cui scaricare il disastroso stato della Bundeswehr, il più scassato esercito della Nato. A lei si imputa ora lo scarso bellicismo dei tedeschi, a patto di dimenticarsi che dal 2013 al 2019 la ministra della Difesa della Germania è stata Ursula von der Leyen, attuale presidente della Commissione Ue, e poi fino all’8 dicembre 2021 Annegret Kramp Karrenbauer, altra delfina di Angela Merkel.

Sui media internazionali Lambrecht paga lo scandalo dello stock di 5.000 elmetti offerti all’Ucraina all’inizio dell’invasione di Putin, nonostante fosse esattamente ciò che aveva richiesto nero su bianco lo Stato maggiore di Kiev che all’epoca faticava a reperire perfino gli stivali per i soldati mobilitati in massa. Ma ufficialmente, la testa della ministra socialdemocratica “rotola” anche per colpa del suo videomessaggio registrato la notte di Capodanno con il sonoro dei botti dei fuochi d’artificio di Berlino mentre in Ucraina piovevano bombe a grappolo. Questa è la versione che si ripete pure negli ambienti del governo Scholz, impegnato a stabilizzare sé stesso di fronte al rinculo di tutti gli scandali interni.

SE ALLA SPD TOCCA la grana della Difesa troppo pacifista, l’immagine pubblica dei Verdi è stata stracciata dall’incredibile, devastante, iconica fotografia di Greta Thunberg portata via di peso dalla polizia al presidio contro l’espansione della miniera di Garzweiler. Mentre il leader dei liberali, Christian Lindner, è tuttora sotto indagine preliminare della procura federale che vuole capire se ci sono gli estremi per trasmettere al Bundestag il caso del suo singolare link con la banca da cui ha ottenuto prestiti a tassi invidiabili.

Tutto in attesa che scoppi il prossimo scontro con gli Usa: quello innescato da Tesla che secondo il sindacato Ig.Metall e i governi di Berlino e del Brandeburgo nella Gigafactory tedesca impone «turni di lavoro devastanti e lo spionaggio dei dipendenti».