L’Ungheria potrebbe incassare fino a poco più di 10 miliardi di euro dei fondi di Coesione grazie alla riforma giudiziaria adottata dal governo lo scorso maggio. È noto che tali fondi erano stati congelati per le preoccupazioni della Commissione europea in relazione al mancato rispetto dello Stato di diritto da parte dell’esecutivo di Budapest. Bruxelles aveva chiesto a quest’ultimo maggiori garanzie sull’indipendenza dei giudici.

C’è comunque un percorso che l’Ungheria deve effettuare per il raggiungimento di una serie di obiettivi con i quali arrivare allo sblocco di 21,7 miliardi di euro e all’accesso ai 10,4 miliardi di euro stanziati nell’ambito del suo piano nazionale di ripresa e resilienza.

La riforma di maggio è stata giudicata soddisfacente e basterebbe a permettere lo sblocco di una parte dei fondi dovuti al paese anche se alcuni funzionari della Commissione parlano della necessità di perfezionare alcuni dettagli per avere più garanzie.

Bruxelles avrebbe riconosciuto l’attuazione, da parte di Budapest, di riforme di rilievo che contribuiscono al rafforzamento dell’indipendenza giudiziaria, considerata a rischio, e che sarebbero, per questo, degli importanti passi avanti fatti in questo campo. 

Stiamo parlando di un sistema di potere, quello di Viktor Orbán impegnato, dal 2010, anno del ritorno al governo del partito Fidesz, a controllare settori e istituzioni chiave nel paese. Bruxelles avrebbe espresso soddisfazione e un moderato ottimismo, e ora si attende il suo benestare allo sblocco di una prima parte dei fondi. Nel caso in cui ciò avvenisse, gli stati membri potrebbero essere chiamati a dire la loro il 14 o 15 dicembre prossimi, ossia quando i leader dell’Unione si incontreranno nella capitale belga.

Il problema, però, non è rappresentato solo dagli aspetti derivanti dall’autonomia a rischio del comparto giudiziario. Sappiamo, infatti, che c’è dell’altro; altre questioni riguardanti la trasparenza negli appalti pubblici e i conflitti d’interesse.

Così, 6,3 miliardi di euro di fondi risultano congelati nel quadro del meccanismo di condizionalità in relazione ai punti appena menzionati.

Ma non basta: la parte restante dei fondi concerne ambiti quali il diritto alla libertà accademica (2 miliardi di euro) e la garanzia dei diritti della comunità LGBTQ+ per la quale sono in ballo 600 milioni di euro. Bruxelles chiede al governo Orbán di migliorare la situazione di questi due ambiti con misure concrete capaci di garantire il rispetto di tali diritti. 

La Commissione europea avrebbe visto qualcosa muoversi nel campo giudiziario ma mantiene una certa cautela, e lo sblocco dei 10,4 miliardi di euro prima menzionati non promette comunque di essere imminente. Non dovrebbero esserci, invece, particolari problemi per il versamento della somma di 920 milioni di euro a sostegno di una serie di progetti nel comparto energetico.

Orbán accusa Bruxelles di ricatto finanziario. È noto che il premier ungherese non ha mai accettato alcun meccanismo di condizionalità legato all’erogazione dei fondi Ue. Né la condizione di dare accoglienza a migranti e profughi sul territorio nazionale senza sentire i pareri del Parlamento e della popolazione né quella riguardante lo Stato di diritto. 

Il primo ministro ungherese ha più volte affermato che non spetta all’Ue stabilire se in Ungheria venga o meno rispettato lo Stato di diritto, ma caso mai ai cittadini ungheresi, e che comunque nel paese non esisterebbe questo problema. Opposizione e settori progressisti della società civile non sono d’accordo ma Orbán considera questi soggetti meno che niente. Per il suo ministro degli Esteri Péter Szijjártó la mancata erogazione dei fondi non sarebbe un problema sul piano pratico (affermazione più che discutibile). A suo avviso l’aspetto più odioso è piuttosto l’uso politico che si fa di questi fondi a Bruxelles, il ricatto che starebbe alla base del versamento di tali somme e che verrebbe messo in atto nei confronti di paesi come l’Ungheria per colpire un governo che vuole agire in autonomia, sul principio della sovranità nazionale.

Si prevede quindi un clima teso al vertice del 14 e 15 dicembre, quando si tratterà dell’apertura dei colloqui di adesione con Kiev e del sostegno finanziario da dare al paese in guerra. Si prevede che Orbán abbia pronto lo strumento del potere di veto per ottenere qualcosa di sostanzioso in cambio.