L’attesa del Consiglio europeo di Bruxelles era stata accompagnata da un sentore di battaglia per piegare la resistenza dell’Ungheria di Orbán nei confronti del piano di aiuti finanziari all’Ucraina. Ma poco più di un’ora dopo l’inizio dei lavori le cose hanno preso una piega diversa da quella prevista, e i presenti sono giunti all’accordo.

A esso si è arrivati dopo un lungo braccio di ferro col premier ungherese che a dicembre aveva posto il veto su questo pacchetto di aiuti e prometteva di rifarlo in caso di mancato accoglimento delle sue richieste. Sostanzialmente, in cambio dell’adesione al programma concepito al fine di sostenere con mezzi economici, per i prossimi quattro anni, il paese in guerra, Budapest chiedeva la revisione annuale della spesa con la formula del voto all’unanimità. In questo modo avrebbe potuto puntare i piedi ogni anno e bloccare il processo e le somme. Questa richiesta si è scontrata col no compatto dei leader degli altri ventisei stati membri i quali si sono limitati ad accordare un dibattito annuale sul pacchetto e l’eventualità di sottoporlo a revisione tra due anni tante volte si rendesse necessario.

Il premier danubiano chiedeva, inoltre, l’estensione del Recovery Fund fino al 2028. Motivo: la situazione dei fondi spettanti all’Ungheria e congelati per i problemi di violazione dello Stato di diritto attribuita alle politiche del governo di Budapest. Come non pensare che Orbán facesse uso del veto per ottenere lo sblocco di questi fondi? Nel mese di dicembre scorso la Commissione europea aveva sbloccato una parte di questi fondi; di fatto, altri 21 miliardi di euro risultano al momento inaccessibili all’Ungheria e promettono di restare tali fino a quando non si concluderà il braccio di ferro sul tema poc’anzi menzionato. Il punto è che tale percorso sembra tutt’altro che agevole.
Se la somma di denaro destinata all’Ungheria risulta per gran parte ancora congelata, non altrettanto può dirsi, a questo punto, di quella prevista per l’Ucraina: 50 miliardi di euro, 17 dei quali in forma di donazioni e 33 come prestiti dal bilancio dell’Ue.

Insomma, in vista del Consiglio europeo i ventisei concordi sugli aiuti a Kiev si preparavano a dare battaglia a Orbán con armi economiche. Eunews dello scorso 29 gennaio scriveva di un piano per colpire l’economia ungherese in caso di un nuovo veto. Un’economia sofferente, com’è noto. Doveva essere un ricatto in risposta a quello orbaniano; un modo per piegare la resistenza ungherese e giungere a un accordo. Scriveva ancora Eunews in attesa del Consiglio: «In caso di taglio del flusso finanziario “i mercati finanziari e le imprese europee e internazionali potrebbero essere meno interessati a investire in Ungheria” con il rischio di “innescare rapidamente un ulteriore aumento del costo di finanziamento del deficit pubblico e un calo della valuta”».

Come già accennato, l’economia ungherese è in evidente affanno, con evidenti e pesanti conseguenze di carattere sociale. Essa ha attualmente a che fare con un deficit pubblico molto elevato e un’inflazione molto alta. Da considerare anche che l’occupazione e la crescita dipendono in modo considerevole dai finanziamenti Ue ed esteri. Le difficoltà nelle quali si dibatte il paese da questo punto di vista sono attribuite da Orbán e, in generale dal suo governo, alla politica di sanzioni contro la Russia. Per l’opposizione ungherese, che non naviga in acque migliori dell’economia nazionale, la colpa è dell’esecutivo e della sua azione sbagliata e tale da allontanare sempre più il paese dall’Europa dei diritti e dagli investitori stranieri.

Comunque sia, gran parte dei fondi spettanti a Budapest resta per ora, come già precisato, nelle casse di Bruxelles. Chissà cosa avrà in mente ora Orbán per provare a liberarla.