Sopportata più che supportata dai suoi, trafitta ormai più di un San Sebastiano, quella di Theresa May è una drammatica agonia. Sempre più in bilico fra una gestione interinale e un inquietante film snuff politico, la sua la premiership è già – ma non ancora – finita. A intrappolarla in questa fine interminabile mentre il suo partito ordisce più intrighi di una corte rinascimentale italiana, il fatto che Jeremy Corbyn, nel frattempo assurto al ruolo di credibile alternativa, l’ha superata di cinque punti negli indici di gradimento, almeno stando a un sondaggio commissionato dall’Independent. Un golpe ai suoi danni, come quello tentato dall’ex presidente del partito Grant Shapps nel weekend, consegnerebbe elettoralmente Brexit e Paese nelle mani dei «neomarxisti» del Labour.

Ma ci sono anche dei problemi: come il comportamento del suo ministro degli esteri, quel Boris Johnson che stenta a contenere le proprie mire carrieristiche e che rivaleggia ormai apertamente con Donald Trump quanto a imprevedibilità. In un flebile vagito di reazione alle recenti – e pesanti – incursioni dell’ultrà del leave Johnson sul terreno della negoziazione, May ha minacciato di diminuirne la carica, ma non ne ha ovviamente la forza politica. Così, dopo l’incubo del suo intervento da incubo al congresso del partito conservatore, a sei mesi dall’inizio dei negoziati sull’uscita del paese dall’Ue e con la clessidra che fugge verso la scadenza dei talks, nel marzo 2019, May persevera nella sua straziante reggenza del partito e del Paese.

Ieri ricominciavano i negoziati con Bruxelles, anche se senza la presenza dei vertici delle due delegazioni, David Davis e Michael Barnier. L’Ue scalpita e vorrebbe chiarezza d’intenti. Nel suo discorso parlamentare di ieri May ha ribadito le note concilianti già suonate dal suo recente discorso fiorentino, nel quale si diceva pronta a un periodo di transizione di due anni, e a saldare le pendenze nazionali del budget europeo, mentre resta il disaccordo su quanto debbano essere ripide tali pendenze. I 20 miliardi di sterline di cui parla Londra sono poco più che spiccioli per Barnier & Co. Ha inoltre annunciato la pubblicazione di due libri bianchi legislativi per regolare dazi doganali e commercio con l’estero in caso di Brexit «dura» (col paese fuori del mercato unico e soggetto alle regole della World Trade Organisation). «La palla è nel loro campo – ha detto la premier – i progressi non saranno sempre scorrevoli, ma con un atteggiamento costruttiv credo saremo in grado di sconfessare i disfattisti».

Eppure «disfatta» è un termine che suona quasi consolatorio di fronte all’itinerario recente della premier: il Labour di Jeremy Corbyn, che ha avuto un congresso trionfale e che è ormai oggetto di un culto spontaneo della personalità, continua a chiederne le dimissioni forte di una serie di colloqui informali già tenuti con Barnier e il suo staff.