Pochi. Potentissimi. Oscenamente ricchi. E con ogni intenzione di continuare così. Sono i padroni del Brasile, il pugno di uomini e donne che controlla la stragrande maggioranza delle ricchezze di un paese sterminato e sovrabbondante. Oggi votano, anche loro, a loro modo.

[do action=”citazione”] I loro strumenti sono media e uomini politici. E hanno scelto Jair Messias Bolsonaro. Finanza, industria, agricoltura, il copione è sempre lo stesso: al massimo una dozzina di cacicchi controllano la stragrande maggioranza del loro comparto. [/do]

È UN FENOMENO MONDIALE ma in Brasile trova uno dei terreni più fecondi. Distribuzione medievale della ricchezza più elettronica, per parafrasare. La maggioranza dell’intero mercato dei capitali in Brasile è detenuta da 12 corporations. Dodici, che sono i reali proprietari delle oltre 2mila imprese che trafficano capitali brasiliani, tutti immersi in una struttura levantina di azionisti e soci che rendono difficile identificarli con certezza, e che ogni tanto cambiano percentuali per motivi fiscali, ma mai e poi mai allentano la presa complessiva.

Telefonica è spagnola, i fondi pensione Previ sono della Cassa funzionari di banca, Telmar partecipazioni è una telecom con Ag Telecom e Bratel su tutti, Bbd partecipazioni è del signor Lazaro de Mello Brandao, Stichting (acciaio) è della famiglia Gerdau Johannpeter, il retail Wilkes e brasiliano francese e risponde al miliardario Abilio Diniz, l’alimentare Blessed è brasiliano-americana e risponde alle famiglie Bertin e Bautista, il banco Santander è spagnolo, per citare solo quelle che muovono più di 50 miliardi di reais, circa 21 miliardi di dollari. Per capirsi, i super-costruttori e super-corruttori Odebrecht, dalla cui Caixa 2 (delizioso eufemismo per soldi in nero) è nata l’inchiesta Lava Jato che ha spazzato via una intera classe politica, sono «solo» i 17esimi della lista.

NON VA MEGLIO in agricoltura. L’1% dei proprietari possiede il 45% delle terre, secondo una fonte non sospettabile di terzomondismo: è Usaid, il programma statunitense di assistenza all’estero – e di che assistenza si tratti lo sa ogni paese che l’ha accettata e poi ha cercato inutilmente di liberarsene. Questo 1% controlla di fatto l’ottava produzione agropecuaria del pianeta, quasi un quarto del Pil brasiliano, il primo esportatore mondiale di carne bovina e avicola, il secondo produttore mondiale di soia.

[do action=”citazione”]Ed è un 1% avido, che vuole di più, che oggi sfrutta le guerre commerciali tra Washington e Pechino per spedire in Cina l’80% della sua montagna di soia e crede quindi di avere abbastanza leverage per inseguire la politica del massimo profitto a spese di quella delle alleanze.[/do]

Gli strumenti di questa poderosa élite, a parte i mass media notoriamente concentrati intorno al super-gruppo Globo e alla famiglia Marinho, siedono nel parlamento federale e nei parlamenti statali. E si articolano per bancadas, cioè gruppi di interesse, che hanno un concetto idraulico della politica e dei soldi necessari a farla: «l’acqua trova sempre il suo cammino». Con don Jair Bolsonaro si sono allineate – ufficialmente – le bancadas di biblia, boi e bala, cioè evangelici agrobusiness e armi.

IN BRASILE LA FEDELTÀ alle bancadas è superiore a quella di partito, senza uno straccio di legge sulle lobby, nemmeno quella porosa e opaca che vige nella democrazia di riferimento, gli Usa. Nessun parlamentare federale si riunirebbe con i capi del suo partito più di una dozzina di volte l’anno, ma i membri della bancada ruralista si incontrano ogni settimana che dio manda in terra in una splendida villa di vetro cemento e acciaio brunito a Lago Sul, quartiere nobile di Brasilia, per discutere che fare e come votare.

E sono più di 200. Chi può resistere a questa massa d’urto? Ci ha provato con un certo successo il Pt riuscendo a respingere per anni la più perniciosa delle aggressioni ruraliste.

Si chiama Pec 215 (Pec sta per proposta di modifica costituzionale), è l’emendamento che dovrebbe togliere al governo e alla fondazione per i diritti indigeni l’assegnazione delle terre oggi demaniali, e assegnare questo controllo al parlamento – dove la bancada non teme rivali. Significa fine del riconoscimento di terre ai popoli indigeni, rimborsi agli sfortunati latifondisti che avessero sofferto espropri negli anni bui del Pt di Lula, allargamento delle terre coltivabili alle zone ora protette – cioè in Amazzonia – in nome del prodotto interno lordo e della bilancia dei pagamenti, tutte questioni detenute, come si ricorda, dall’1% dei proprietari. I ruralistas ci si sono rotti le corna per oltre dieci anni. Con Bolsonaro passeranno in carrozza.

DELLA BANCADA DA BALA fa parlare il suo miglior deputato, José Augusto Rosa, più noto come Capitão Augusto: 52enne ufficiale della riserva, fondatore del Partito militare ma eletto con quello Repubblicano, che va in parlamento sempre – sempre – in perfetta divisa della policia militar, un po’ sinistro per un paese che non ha mai davvero sepolto la dittatura militare, e giammai l’ha punita. Capitão Augusto è chiarissimo: «Bancada da bala? Mi piace il nome, ma siamo gente che difende la vita, principalmente quella dei cittadini dabbene» (citazione testuale). Grazie alla difesa dabbene, c’è una società che sta festeggiando da mesi il nuovo verbo di Bolsonaro e soci.

È il monopolista brasiliano di pistole e fucili, la Forjas Taurus, schizzata del 150% negli ultimi due mesi grazie al programma di riarmare la polizia e la gente, e grazie agli spot con Bolsonaro che imbraccia spingarde davanti alla loro sede ripetendo il mantra elettorale «il bandito buono è il bandito morto».