«Le stelle sono tante», diceva un vecchio slogan pubblicitario, «milioni di milioni». Come anche i debiti di Richard Branson, il minore dei tre robber barons del cosmo (gli altri sono ovviamente Elon Musk e Jeff Bezos). La sua Virgin Orbit, ha presentato ieri istanza di fallimento negli Stati uniti dopo gli ultimi altrettanto fallimentari tentativi di ottenere finanziamenti per farla restare a galla, o meglio, per aria. Ora, almeno secondo la Chapter 11 bankruptcy protection degli Stati uniti, potrà affrontare i propri problemi finanziari tenendo momentaneamente a bada i creditori. Alla sospensione/cessazione delle attività, il mese scorso, sono immediatamente seguiti i 675 licenziamenti – circa l’85% della forza lavoro basata a Long Beach, in California. Branson, che della Virgin Orbit possiede il 75%, e che finora vi ha investito un miliarduccio di dollari suoi, dopo essersi rifiutato di iniettarne altri sta trattando con due investitori per una potenziale vendita, o ricapitalizzazione.

AD AGGRAVARE la picchiata (anche in borsa, ha perso il 33 per cento) un terzo fallimento: quello del decollo di un satellite lo scorso gennaio che doveva essere il primo di una trionfale serie di lanci dalle isole britanniche. Non a caso parliamo di decollo: la prerogativa della venture bransoniana è nel segno del non si butta via niente: si tratta di un lancio orizzontale, dato che utilizza un Boeing 747 convertito per trasportare un razzo a 35.000 piedi di altitudine, dove questo viene poi rilasciato per catapultare i satelliti in orbita. Fino adesso aveva al suo attivo quattro missioni riuscite e lanciato 33 satelliti. L’aereo, debitamente aggiornato, proviene dalla flotta di voli commerciali, la vecchia Virgin Airways (oggi Virgin Atlantic), anch’essa lanciata orizzontalmente dal nostro nel 1984.

Poi, lo scorso 9 gennaio, lo storico flop: LauncherOne, i dieci milioni di sterline di razzo della Virgin Orbit, non riesce a raggiungere l’orbita, il tutto aggravato dall’anticlimax dei vertici dell’azienda: in un precoce tweet avevano assicurato i fan che era andato tutto bene, il missile l’aveva raggiunta l’orbita quando in realtà – dopo essersi staccato dal jumbo, assai binariamente ribattezzato Cosmic Girl – per colpa di “un’anomalia” si era invece inabissato nell’Atlantico, andando ad accelerarne la fine oceanografica.

LA VIRGIN ORBIT è nata nel 2017 da una costola dell’azienda di turismo spaziale di Branson, la Virgin Galactic; al momento della sua quotazione al Nasdaq era valutata 3.7 miliardi di dollari. Il suo valore sarebbe attualmente sceso a qualche decina di milioni. In un tempo non lontano era considerata come un serio rivale per la SpaceX di Elon Musk, ad alimentare l’ego di Branson e quello nazionale del governo conservatore britannico, che spera di fare del paese la punta di diamante (non) europea di questa space race commerciale. Al gennaio 2022, erano stati calcolati 8.261 satelliti in orbita intorno alla terra, di cui sono attivi circa la metà. Un immondezzaio galattico, destinato ad aumentare come sulla Terra.

PER BRANSON, che faceva il miliardario pseudo controculturale ben prima delle dolce vite di Steve Jobs, tutto comincia negli anni Sessanta con una fanzine universitaria che raccoglie un ben di dio in pubblicità. Quei proventi gli serviranno per lanciare l’unica, vera, leggendaria Virgin: la Records, che fa il botto con Tubular Bells, il capolavoro prog di uno sconosciuto, prodigioso e patologicamente introverso multistrumentista diciottenne di nome Mike Oldfield, che sovverte ogni regola discografica sbancando le classifiche con due suite di 20 e rotti minuti l’una e regalando nel 1973 al futuro Sir Richard il suo primo milioncino. Sarebbero seguiti, nel disordine, i Pistols, gli Stones, Peter Gabriel, gli XTC, i Japan, gli UB40 e Steve Winwood, tanto per citarne alcuni. I decenni successivi saranno un florilegio di VirginS: libri, dischi, video, prestiti, aerei, treni, finanza, telefonia, palestre, perfino la cola. Vende la Records per tenere in volo gli aerei dell’Atlantic, che dopo la deregulation del traffico aereo americano inaugurata da Carter offriva voli intercontinentali a costi competitivi ma che rischia di fallire negli anni Novanta.

Poi, agli inizi degli anni Duemila, si getta nella corsa alla colonizzazione dell’universo travestita da turismo spaziale, solo per essere surclassato dai succitati Musk e Bezos. Anche nello spazio, la Coca (di Musk) e la Pepsi (di Bezos) staccano la Virgin Cola di svariate lunghezze.

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