Il talco, il minerale più morbido esistente in natura, è stato collocato dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) nella categoria dei «probabili cancerogeni», andando ad aggiungersi agli altri 94 agenti chimici e biologici con probabili effetti cancerogeni. Il talco, costituito da magnesio, silicio e ossigeno, da più di cento anni è entrato nelle nostre case con i prodotti che lo contengono. Le sue caratteristiche chimiche e fisiche lo rendono idoneo a molteplici impieghi.

LE INDUSTRIE FARMACEUTICHE e della cosmesi sono state le prime a sfruttarne le proprietà, utilizzandolo per la preparazione di farmaci e polveri per il corpo. Per decenni non c’è stato niente di più rassicurante della polverina bianca, morbida e profumata denominata «borotalco» in cui il talco viene mescolato con l’acido borico. Un prodotto che ha riscosso un notevole successo commerciale nelle varie generazioni, celebrato come fonte di benessere e sollievo per bambini e adulti. Nella pubblicità televisiva europea e statunitense degli anni ’60 i prodotti a base di talco venivano proposti con insistenza e mostravano bambini inondati di borotalco che manifestavano la loro gioia e soddisfazione.

LA JOHNSON & JOHNSON È L’AZIENDA statunitense che ha dominato per decenni il mercato delle polveri di talco, lanciando il suo primo prodotto all’inizio del novecento e raggiungendo livelli di vendita, a livello mondiale, superiori a quelli dei concorrenti messi insieme. Un traguardo raggiunto grazie al successo delle sue campagne pubblicitarie che miravano a estendere a tutte le fasce d’età l’impiego del prodotto. Ma è in questi anni di massima diffusione che si fa sempre più strada la convinzione che i prodotti a base di talco possono provocare danni alla salute, soprattutto se contaminati da quel killer silenzioso che è l’amianto.

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LA J&J, OGNI QUALVOLTA SONO STATE TROVATE tracce di amianto nei suoi prodotti, ha sempre avanzato l’ipotesi di contaminazioni ambientali avvenute durante la commercializzazione o nel corso delle analisi. In realtà la presenza di amianto nel talco è una condizione che può verificarsi con una certa frequenza. La contaminazione può avvenire durante la fase di estrazione, perché i due minerali sono presenti in natura nello stesso tipo di rocce e sono accomunati dallo stesso processo di formazione. Il problema fu affrontato per la prima volta dall’Unione europea nel 1973 con una legge che stabiliva che tutti i prodotti a base di talco devono essere privi di ogni traccia di amianto.

INOLTRE, I FORNITORI DELLA MATERIA PRIMA e le aziende che lo utilizzavano avevano l’obbligo di garantire questo requisito. Si è dovuto aspettare il 1987 prima che l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro riconoscesse la cancerogenicità dei talchi contenenti amianto. La J&J, pur continuando a sostenere che il suo talco non contiene amianto e non provoca tumori, lo ha sostituito nei suoi prodotti con l’amido di mais a partire dal 2020 negli Usa e Canada e dal 2023 negli altri paesi. Il talco continuerà a essere impiegato nelle industrie della plastica e della carta, nella preparazione di ceramiche e vernici, in campo agricolo per la preparazione di fertilizzanti e mangimi, ma, dopo la decisione della Iarc, la sua storia come prodotto per il corpo si può considerare conclusa. Nei decenni passati, anche i lavoratori impegnati nelle miniere di talco hanno pagato un tributo elevatissimo, mai riconosciuto, a causa dell’insorgenza di tumori polmonari dovuti alla presenza di amianto nelle rocce.

IL MESOTELIOMA ERA LA FORMA PIÙ GRAVE per l’altissimo tasso di mortalità. Le prime indagini epidemiologiche, svolte all’inizio degli anni ’60, avevano individuato nell’amianto il responsabile, ma i risultati venivano coperti e le autorità sanitarie dichiaravano che l’incidenza del cancro tra i lavoratori non era superiore a quello che si riscontrava nel resto della popolazione. Inoltre, la presenza di silicati nel minerale e l’inalazione delle polveri prodotte durante l’attività, determinava lo sviluppo di un’altra grave malattia polmonare, la silicosi. Si calcola che il 60-70% dei lavoratori occupati nelle miniere di talco abbia contratto la silicosi. Era il lato nascosto del successo commerciale della polverina bianca. In Italia, le miniere di talco più importanti erano localizzate nelle valli piemontesi e lombarde a ridosso dell’arco alpino, come conseguenza delle particolari caratteristiche geologiche del territorio. In queste zone l’estrazione del talco era l’attività principale.

LA MINIERE DELLA VAL GERMANASCA e Val Chisone (Piemonte) e della Valmalenco (Lombardia) occupavano negli anni ’60 più di mille persone. Chilometri di gallerie venivano scavate dentro la montagna per «coltivare i filoni», come si dice nel gergo minerario. L’attività prevedeva che il minerale venisse estratto, frantumato e portato all’esterno, per poi essere ridotto in polvere prima di raggiungere le industrie che lo utilizzavano. Il «talco italiano» della Val Germanasca è stato uno dei primi esempi del «made in Italy» ed era richiesto dalle industrie farmaceutiche e della cosmesi di tutto il mondo per il suo elevato grado di purezza. Ora l’Italia importa la maggior parte del talco che serve nei diversi settori produttivi. Quasi tutte le antiche miniere di talco presenti sul territorio italiano sono state dismesse e in quelle ancora attive sono impegnate poche decine di persone.

LA CRISI DELL’ATTIVITÀ ESTRATTIVA DEL MINERALE appare irreversibile. Nella Val Germanasca, che è stata sinonimo di talco per più di 100 anni, è rimasto un solo sito di estrazione dove lavorano meno di 50 minatori. La vecchia miniera è diventata un museo minerario aperto al pubblico e a bordo di un trenino si possono visitare i 3,5 km di gallerie scavate dai lavoratori, cogliendo il difficile rapporto tra l’uomo e la miniera. Le speranze e i sogni di riscatto economico di tante comunità che avevano puntato sul talco, si sono dimostrate fragili come il minerale.