Passato il giro di boa del mandato («ma solo del primo!», insiste lui) Donald Trump mantiene la nazione nel precario, intenzionale disequilibrio di una polemica permanente, a cui si aggiunge l’appena consegnato rapporto sul Russiagate del procuratore speciale Mueller. Una sorta di stato d’emergenza retorica attizzato dai tweet giornalieri, con l’occhio fisso ormai alla campagna di rielezione del 2020.

Non vuol dire che non ci sia il tempo per provocare danni concreti: sul fronte ambiente ad esempio e sull’immigrazione trasformata in operazione di interdizione e internamento in un gulag ipertrofico e segreto da cui trapelano notizie inquietanti (detenzioni illimitate, continui sequestri di figli, appalti a centri di detenzione private, abusi su minori, interdizione delle ong). Un contraltare degno agli scempi in atto nel Mediterraneo e scene di una distopia logorante, diventata ordinaria.

Questa settimana il presidente ha affermato la legittimità del controllo israeliano sulle Alture del Golan siriano occupato e firmato un decreto che protegge «la libertà d’espressione nelle università»,

Il primo è stato l’ultimo nella serie di assist all’amico oltranzista Netanyahu. Il secondo rettificherebbe il pregiudizio contro le idee conservatrici – da anni ossessione della alt-right – ed è stato ispirato dall’insurrezione che aveva accolto a Berkeley il provocatore alt-fascista Milo Iannopolous quando aveva tentato di parlare su quell’ateneo due anni fa.

Il comizio di hate speech era stato “dialetticamente” respinto da sassaiole e alcune molotov dagli studenti e il militante gay bannoniano era stato costretto alla ritirata. Il decreto di Trump (che minaccia la sospensione di sussidi federali alle istituzione che non garantiscano la par condicio per gli estremisti di destra) è l’ultimo atto di solidarietà alla galassia suprematista cui il presidente fa continuamente l’occhiolino.

Degno di nota a questo riguardo anche l’assordante silenzio sulla strage di Christchurch, proprio nella settimana in cui viene condannato Cesar Sayoc, il militante trumpista che lo scorso anno aveva spedito pacchi bomba a giornalisti ed esponenti democratici, compreso Obama.

Ugualmente assodato ormai l’impegno nel costruire un asse transazionale di nazional populismo che vede Trump consolidare il legami con despoti di mezzo mondo. Non che gli Usa abbiano disdegnato rapporti di comodo con dittatori anche feroci nel passato, sotto l’egida del «mondo libero».

Ma inedita è la sfacciataggine con cui Trump ricerca l’affinità con personaggi di rara efferatezza come Mohammed Bin Salman e Jair Bolsonaro. Quest’ultimo in settimana è stato ospite d’onore alla Casa bianca per uno show in cui i due leader hanno fatto sfoggio a favore di telecamere di vicendevoli salamelecchi e machismo complementare.

Il summit caudillista, atto a rafforzare una dottrina Monroe in cui regimi parafascisti latinoamericani come quello brasiliano sono partner consenzienti, era stato organizzato da Steve Bannon, animatore, prima del vertice, di un incontro fra ideologhi con Olavo De Carvalho, principale consigliere di Bolsonaro. Ultima indicazione di come Bannon trovi ancora il tempo, negli intervalli della sovversione dell’Unione europea, per dedicarsi all’impalcatura ideologica del trumpismo.

La «decostruzione dell’ordine mondiale globalista», che nella apocalittica visione bannonista è necessario preludio alla grande purificazione, è stata perseguita dall’amministrazione Trump soprattutto mediante la sistematica decurtazione della diplomazia (nella prossima finanziaria viene ulteriormente ancora ridimensionato il bilancio del dipartimento di Stato a favore di un ulteriore impennata del budget militare) a favore di una poco definita «posizione di forza». All’atto pratico questo ha significato soprattutto lo stracciamento sistematico di trattati, da Parigi a Tehran ai commerciali Nafta e Tpp.

Al loro posto il nulla, a meno di non contare le foto opportunità con Kim Jong-un. Ma il vertice di Hanoi è fallito catastroficamente e, tornato in patria, Kim non avrebbe perso tempo nel riavviare il programma nucleare. Nulla di fatto anche con Xi sul fronte del negoziato commerciale con la Cina. Perfino la destabilizzazione venezuelana sembra essere in stallo malgrado gli sforzi del criminale di guerra promosso commissario speciale a Caracas, Elliot Abrams.

Così va la geopolitica nell’era dell’autoproclamato «più grande negoziatore al mondo». Non è comunque prioritaria la politica estera per un presidente da sempre più attratto dallo schermo del telefonino che dall’ordine mondiale e ormai distratto dalla pre-campagna elettorale.

Per Trump, che la campagna non l’ha mai veramente interrotta, ricominciando a tenere comizi poco dopo l’insediamento nello studio ovale, è sempre stata il prolungamento del mandato la principale preoccupazione e in quest’ottica più dell’ampliamento dei consensi, il consolidamento dello zoccolo duro di fedelissimi che rimangono interlocutori unici del suo «discorso» politico.

Si tratta per la verità più di un litigio sostenuto con ogni antagonista, dalla satira tv alle fake news, i delinquenti che terrorizzano gli americani e i barbari che si accalcano sulla frontiera meridionale, oltre che l’intramontabile ossessione: Hillary Clinton.

Trump trasforma ogni comizio in sabba di autocompiacimento o geremiade contro la «sinistra radicale» e i nemici personali, presenti e passati. L’ultima apparizione, in una fabbrica di carri armati in Ohio è iniziata con un programmato annuncio di mission accomplished contro l’Isis (ufficialmente annientato) per trasformarsi in una litania di dileggio contro il senatore repubblicano John McCain deceduto sette mesi mese fa, l’eroe di guerra che Trump – defilatosi dal Vietnam con scusa medica – non riesce a smettere di attaccare («Gli ho dato il funerale che voleva – ha detto stavolta, – e manco un grazie!»).

In questa campagna che si nutre di contenziosi paralleli e multilaterali, l’alleato più affidabile rimane Fox News. Il canale di Murdoch è praticamente un gabinetto ombra di mezzibusto che promuovono il presidente e vengono citati e ritwittati da quest’ultimo. E con l’approssimarsi della sfida elettorale la retorica celodurista assume riflessi via via più sinistri.

In un’intervista a Breitbart news Trump ha recentemente dichiarato che la sinistra farebbe bene a fare attenzione dato che «io ho l’appoggio della polizia e dell’esercito e quello dei bikers for Trump (la gang motociclista che faceva servizio d’ordine alla convention repubblicana di Cleveland, ndr). Ho tutti i duri, anche se non fanno i duri – per ora». Se la sinistra esagera saranno dolori ha concluso il presidente degli Stati uniti in versione capobanda.

Il parlamentare di estrema destra Steve King gli ha fatto seguito immaginando una prossima guerra civile fra una destra armata di «otto trilioni di proiettili» e una sinistra in preda a «confusione gender». Il meme dei progressisti come femminucce che uscirebbero malridotti dal confronto armato che seguirebbe inevitabile a un tentativo di restaurazione delle élites è caro alle frange delle destra «antiglobalista», ma la sua disinvolta adozione nelle dichiarazioni del presidente non ha precedenti.

Nel mezzo di questa retorica ossessiva di “vincitori” e “perdenti”, lo scandalo che racchiude l’etica del momento è quello sulle mazzette pagate da dozzine di famiglie per garantire l’accesso ai figli negli atenei più esclusivi del paese. Le rivelazioni hanno coinvolto industriali, magnati e stelle di Hollywood e la loro progenie di rich kids ingrati e viziati. Simboli della disuguaglianza e della bancarotta morale della finta rivoluzione populista di Trump.