Ci sono stati anni in cui a distribuire la mimosa alle colleghe operaie davanti alle fabbriche, si poteva finire in carcere… È quello che accade l’8 marzo 1955 a due attiviste bolognesi, Anna Zucchini e Angela Lodi, partite di prima mattina coi fiori e la cassettina per l’offerta libera: accusate di questua abusiva insieme ad altre due compagne, si ritrovano a San Giovanni in Monte in attesa di processo.
Quali abissi di perdita di senso, di profondità dell’impegno e della passione politica ci separano dagli anfratti rimossi della nostra storia novecentesca: Paura non abbiamo, un documentario di Andrea Bacci, in questi giorni in sala, con lucida fermezza e rigorosa autorevolezza storica raccoglie e testimonia tutta la brillantezza di memorie sepolte, individuali e collettive, memorie indispensabili per comprendere chi eravamo chi siamo e un potenziale immane a cui attingere.
CITTÀ ANOMALA
Ecco San Giovanni in Monte – cardine spaziale del film – quel luogo tante volte temuto in passato, ai giorni nostri, grazie al cinema, ruota intorno a loro, ad Angela che, a quel tempo ancora minorenne, aveva chiesto e ottenuto di restare in cella col gruppo delle più grandi, a Katia, che testimonia in vece della madre Anna, scomparsa.
E la camera dialoga con i loro volti e con le geometrie del chiostro, con l’aura delle stratificazioni d’uso dell’edificio, in origine chiesa e monastero risalenti al declino dell’impero romano, quindi carcere dalla fine del XVIII secolo fino agli anni Ottanta del secolo scorso e oggi sede del dipartimento di discipline storiche dell’università. In un rifrangersi di echi di dolori di momenti lievi in comune e di vissuti. E dove manca la voce in presenza di Anna Zucchini, è la traccia dei suoi diari interpretati in voce over da Camilla Filippi a dare forma al film, a impregnarlo del suo fervore appassionato. È lei a scandire il documentario, la polifonia delle testimonianze di storici e attivisti, che lo corredano squisitamente.
Bologna: negli anni tra il ‘48 e il ’55, con la sua anomalia di città con amministrazione comunista e quindi in conflitto con il governo centrale rappresentato dalla Democrazia cristiana, è l’humus che vede germinare tra le donne una coscienza politica che spicca come eccellenza nel contesto dell’epoca: mentre la Ducati progetta 960 licenziamenti, si rivendica il lavoro, condizioni di vita dignitose e, secondo l’art.37 della Costituzione, parità di salario con i colleghi maschi – da questo punto di vista l’iniquità del sistema, a tutt’oggi non risolta, è amplissima. Si partecipa in tutti i modi, sia attraverso i partiti, il Pci e il Psi, sia attraverso associazioni specificamente nate per le donne come l’Udi, sia attraverso le organizzazioni sindacali.
Contraltare a questo afflato politico così appassionato, i primi quindici anni del tracciato repubblicano sono definiti storicamente come «Repubblica della forza». Lo scenario è quello di una democrazia assediata, bloccata, ossessivamente propensa all’azione penale – ancora in vigore il codice fascista e in particolare l’articolo 113 che vieta qualunque forma politica di azione collettiva – persecutoria nei confronti delle organizzazioni della sinistra, di sindacalisti e di giornalisti. Secondo lo storico Emilio Sereni dal ‘48 al ‘54 sono 75 i morti, 148mila gli arrestati e 60mila i condannati.
LA LUCE NEI VOLTI
E così Anna Zucchini che si è formata durante la guerra e l’occupazione tedesca della fabbrica, quando ha conosciuto militanti della Resistenza antifascista, ha cominciato ad approfondire la sua passione politica anche grazie alla stampa clandestina, letta di nascosto nei bagni (allora essere trovati a distribuire i fogli proibiti de L’Unità poteva essere altrettanto motivo di carcerazione…), Anna che è stata tra gli organizzatori dello sciopero del ’44, cesella la sua consapevolezza e il suo impegno in anni di fuoco: tra il ’51 e il ’54 sono duemila le donne processate e 1200 quelle condannate.
Eccola sorridente con le compagne il giorno della scarcerazione, mentre stringe a sé la sua piccola Katia. Come appaiono sereni e veri i volti di queste donne, nel corredo fotografico storico che impreziosisce il film. Vero cuore propulsivo di fabbriche come la Ducati, durante e dopo la guerra, quando sono le prime a dedicare se stesse alla ricostruzione, saranno loro le più penalizzate dalle politiche di licenziamenti. Eppure, anche grazie al Comitato di solidarietà democratica, continueranno a darsi da fare le une per le altre, a fornire assistenza legale, a sostenere con pasti caldi le famiglie dei licenziati per rappresaglia politico sindacale, a professare se stesse con coraggio e a credere fermamente nel sostegno reciproco. Ecco forse il perché di quella luce sui loro visi.