Si fa sempre più dura l’opposizione dei movimenti sociali e delle comunità indigene alle grandi opere costruite nei loro territori ancestrali tutelati dalla Costituzione come proprietà demaniali ad uso collettivo, i cosiddetti Tco (Tierras Comunitarias de Orígen), all’insegna di un estrattivismo incontrollato.

Alex Villca Limaco del coordimanemto per la difesa dell’Amazonia (in sigla Coda) di Rurrenabaque spiega : «Il governo ci costringe a una morte silenziosa: inganna le comunità indigene e si approfitta del loro stato di necessità, promette servizi che dovrebbero essere garantiti». Lo scorso 10 ottobre, in occasione dei 32 anni della democrazia, migliaia di persone sono scese nelle principali piazze del Paese al grido di «Bolivia dijo No!».

HA DETTO NO in effetti, la Bolivia: lo slogan fa riferimento all’esito del referendum del febbraio 2016, quando i boliviani hanno rifiutato la revisione costituzionale che avrebbe permesso a Evo Morales di ricandidarsi alle elezioni del 2019 per la quarta volta anche se non di seguito. «Morales era convinto di vincere il referendum, ma si è dimenticato di quanto ai boliviani sia costata la democrazia. Le persone sono perfettamente consapevoli del rischio che porterebbe una nuova rielezione. Siamo prossimi a giorni di lotta: Morales sta calpestando la costituzione e la volontà del popolo», mi spiega Gustavo Soto Santiesteban, fondatore del Ceadesc di Cochabamba, il Centro de estudios aplicados a los derechos economicos, sociales y culturales, attivo fino al 2015.

Santiesteban si riferisce al ricorso proposto lo scorso settembre dal partito di Morales al Tribunale costituzionale plurinazionale. Il ricorso in questione ha l’obiettivo di rendere incostituzionali cinque articoli della legge elettorale e inapplicabili quattro della Costituzione, quelli che limitano a due il numero di mandati consecutivi di presidente e vice presidente. Il Tribunale ha 45 giorni per decidere, attualmente la questione è stata sottoposta all’Organizzazione degli Stati Americani (Oea).

AL CAFÉ CASABLANCA di Cochabamba incontro anche Fernando Machicao Bowles, detto «Boxer», ingegnere di volo in pensione e da sette anni attivista per i diritti ambientali. «Il governo vuole avviare una serie di mega opere che non sono sostenibili sia dal punto di vista economico, che da quello ambientale, perché costruite in territori protetti. Un esempio è il caso delle due dighe a cascata nello stretto del Chepete e del Bala, nel Parque Nacional Madidi nell’Amazzonia boliviana.

NELLO STUDIO di valutazione della Geodata, la società di Torino che sta lavorando al progetto, si dichiara che la costruzione è conveniente solo nel caso in cui l’energia prodotta venga venduta a 70 dollari per megawattora. Attualmente, il prezzo di vendita al Brasile, il principale partner commerciale della Bolivia, è di 52 dollari per Mwh.

Il disegno finale elaborato da Geodata deve essere consegnato entro dicembre 2017, e il mese successivo il governo ha già tutto quello che gli serve per iniziare i lavori. Il Madidi è un Tco: un territorio su cui si esercita la consulta previa, cioè prima di avviare qualsiasi tipo di progetto, lo Stato deve ottenere il nullaosta di tutte le comunità indigene che le abitano e alle quali è riconosciuto un diritto di usufrutto.

Ma ovviamente sono diritti che rimangono sulla carta, basti pensare da quanti anni le comunità stanno lottando contro la costruzione della carretera nel Tipnis nel parco Isiboro Sécure. Anche in questo caso, lo Stato ha agito nell’illegalità: il primo tratto della carretera, che collega Villa Tunari e Isinuta, è stato concluso nel settembre 2016 e la legge 696, che toglie l’intangibilità al Tipnis, è del 13 agosto 2017.

D’ora in poi il parco è in balia di qualsiasi tipo di estrattivismo e sfruttamento delle materie prime: deforestazione e commercio del legname, ampliamento della coltivazione di coca destinata al narcotraffico, estrazione di petrolio e gas naturale, il tutto nascosto sotto la menzogna dello sviluppo. «Una strada è necessaria e utile, ma si può costruire da un’altra parte -continua Fernando- esistono delle alternative che non sono state prese in considerazione, perché in realtà gli interessi che gravitano intorno al Tipnis sono altri. Tutti sanno che la coca del Poligono 7 del Chapare, all’interno del Tipnis, non è una coltivazione autoctona: viene utilizzata quasi esclusivamente per la produzione della cocaina per il narcotraffico».

MORALES è stato per anni il referente sindacale dei cocaleros, che rappresentano ancora oggi lo zoccolo duro dei suoi sostenitori. Ora vogliono ampliare le loro coltivazioni ed Evo non può permettersi di perdere il loro consenso in un momento così delicato. Uno dei motivi geo-politici della carretera è la centralizzazione: il Chapare è lo snodo delle esportazioni attraverso il Pacifico, ha un peso economico e politico importantissimo. Tutta la soya prodotta a Santa Cruz passa attraverso il Chapare: un blocco in questa zona porterebbe l’economia boliviana alla paralisi.

A RURRENABAQUE nella regione del Beni, incontro Alex Villca Limaco del Coda, l’organizzazione no-profit che coordina la difesa dell’Amazzonia. «Il Madidi è una delle riserve con maggiore bio-diversità a livello mondiale: l’inondazione causata dal progetto idroelettrico El Bala avrà conseguenze enormi non solo sulle specie animali e vegetali, ma anche sulle 17 comunità indigene che si trovano lungo il fiume e che, negli ultimi anni, hanno investito sull’eco-turismo.

Il costo previsto è di 7.000 milioni di dollari: è la prima volta nella storia della Bolivia che vengono spesi così tanti soldi in un unico progetto e gli unici beneficiari sono i governi e le multinazionali, non le persone che abitano queste terre. Il governo, prima di iniziare qualsiasi studio sul nostro territorio, avrebbe dovuto rispettare la legge e organizzare una consulta previa, cosa che invece non è avvenuta».

Nel novembre 2016, con un presidio durato dodici giorni – racconta ancora – «abbiamo ottenuto che la Geodata se ne andasse: inizialmente il governo ci ha descritto come gente di destra, filo-americani, ong che si oppongono allo sviluppo. In un secondo momento ha inviato i suoi portavoce nelle comunità offrendo soldi e servizi di base che di per sé dovrebbero essere garantiti, come acqua corrente nelle case, luce elettrica, strade, ospedali, scuole».

LA PAZ, secondo il duro giudizio di Alex Villca Limaco, «si sta approfittando dello stato di necessità di alcune comunità: le inganna, le divide e, quando ci riesce, compra alcuni dirigenti. La nostra cultura è legata indissolubilmente a queste terre, che in passato ci hanno nutrito, vestito e curato e ci impone di proteggerle, perché ne facciamo parte. Il governo si dichiara di sinistra, indigenista, pachamamista ma in realtà sta attuando le peggiori politiche neo-liberali di sempre».

«Una tematica che preoccupa molto la mia comunità è quella della ricollocazione», mi spiega Noè Marcos Macuapa, corregidor della comunità di San Miguel del Bala, sul fiume Beni.

«San Miguel è un villaggio che ha sempre vissuto di caccia e di pesca ma, da quando è stato creato il Parco nel 1995, abbiamo deciso di investire sul turismo ecologico e abbiamo cercato finanziamenti per la realizzazione delle strutture, ci siamo formati andando a studiare in città. Adesso, senza chiederci nulla, il governo ci comunica che vuole trasformare il nostro territorio nel centro energetico del Sudamerica, e che sposterà la nostra comunità altrove. Gli anziani hanno già detto che se ne andranno da qui solo morti, resteremo uniti in questa lotta».