Sono passati trent’anni da quando Akeem, il principe ereditario del sontuoso reame africano di Zamunda, partì in cerca di una moglie – destinazione Queens, che in inglese vuol dire regine, ma è anche un quartiere di New York dove, specialmente negli anni di Reagan, era impossibile trovare una goccia di sangue blu. Come la visionaria commedia di John Landis Il principe cerca moglie (uno dei primi grossi successi hollywoodiani dal cast all black) con Eddie Murphy nel ruolo di Akeem (e di tre o quattro altri personaggi), Black Panther è la storia del principe di un mitico regno nel cuore dell’Africa.

Sugli atlanti, Wakanda è descritta come la nazione più povera del continente. Ma (letteralmente) sotto le sue savane sterminate, punteggiate da piccole mandrie e sparute capanne di pastori, sta un paese ancestrale, fantastico e ricchissimo, grazie al minerale segreto di cui possiede una riserva inesauribile, il vibranio. L’ultimo film del mosaico sempre più sfaccettato nato con l’unione tra Disney e Marvel Comics, non apre però in quel luogo colorato, tecnologicamente avanzato, vibrante di secoli di cultura e perfetto per una passerella di moda del terzo millennio, bensì in una scarna stanzetta di Oakland – sul muro un manifesto dei Public Enemy (siamo nel ’92), a pochi isolati la stazione della metropolitana dove si consuma il tragico finale di Fruitvale Station, l’esordio di Ryan Coogler, ispirato alla morte di Oscar Grant, ucciso nel 2009 dalla polizia, mentre tornava a casa da una festa di Capodanno.

Non è un caso che il giovane regista afroamericano di Creed (coautore delle sceneggiatura insieme a Joe Robert Cole) abbia scelto la città culla delle Black Panther per l’antefatto del primo film dedicato all’unghiuto supereroe nero, concepito da Stan Lee e Jack Kirby nel 1966, sull’onda del movimento per i diritti civili: come tante avventure Marvel Black Panther è una storia di padri e figli (due e due), articolata però secondo la dialettica portante della battaglia afroamericana contro il razzismo Usa, che contrappone la lotta armata all’attivismo pacifista, molto schematicamente Malcolm X o le Pantere nere e Martin Luther King. T’Challa (Chadwick Boseman) è il nuovo re di Wakanda, che intende governare nella tradizione isolazionista e pacifica di suo padre; Erik Killmonger (Michael B. Jordan) un misterioso militante, addestrato dalle forze speciali Usa, che vuole il vibranio, e la corona di Wakanda, per scatenare una guerra di razza globale. In posizione intermedia tra i due è Nakia (Lupita Nyongo), ex fidanzata di T’Challa che ha lasciato i fasti della corte per aiutare i profughi di paesi africani limitrofi tormentati dalle guerre tribali.

La rigidità un po’ prosaica della premessa si stempera abbastanza nell’azione e soprattutto nello spettacolo/celebrazione dei riti, delle battaglie e delle tradizioni di Wakanda – un paese disegnato secondo un elaborato mix di passato e futuro, in cui il guerriero più valoroso e potente è un’amazzone che ricorda Grace Jones, i rinoceronti hanno corazze, le cascate moltiplicano per quattro quelle di Vittoria e la cerimonia d’incoronazione prevede un viaggio – via pozione magica- nella terra degli avi; che si tratti di una pianura d’Africa o di una città operaia della California. La temporanea defenestrazione di T’Challa offre l’opportunità di un viaggio nel paese nevoso di un’altra tribù.

E, nel ruolo della sorella minore del principe, Letitia Wright ha più assi/gadget nella manica del Q di 007. Insieme ai bellissimi costumi di Ruth Carter, la colonna sonora di Kendrick Lamar (che echeggia il doppio binario della trama, tra antica gloria ancestrale e le sofferenze del ghetto) è parte sostanziale del pacchetto celebrativo. Effettivamente, il black pride di Black Panther è più vicino a un ibrido tra #blacklivesmatter e il disneyano Lion King (anche nella versione Broadway), che a quello dei magnifici principi di Harlem Shaft o Superfly. E la regia dei match di boxe in Creed era più interessante dei corpi a corpo digitalizzati tra i supereroi del film. Però questo Black Panther è lo stesso una bella festa.