«Dobbiamo smettere una volta per tutte di descrivere gli effetti del potere in termini negativi: «esclude», «reprime», «censura», «astrae», «maschera», «cela». In realtà il potere produce; produce realtà; produce domini di oggetti e rituali di verità. L’individuo e la conoscenza che possiamo assumerne derivano da questa produzione», scriveva Michel Foucault in «Sorvegliare e punire» nel 1975.

Il potere, dunque, è anche costrizione, repressione, imposizione. Ma non solo. Nelle molteplici manifestazioni di verità, i testimoni e operatori principali sono i soggetti, gli individui, i cittadini in carne e ossa. Se il potere è fatto di relazioni, le persone de facto ne costituiscono il motore come soggetti-oggetti. È in questa dimensione che si innesta la biopolitica, governo della vita e sulla vita. È un processo in trasformazione che si nutre del discorso di governo, si insinua nei rapporti sociali, si intreccia con la disciplina nelle «società di normalizzazione», quelle dove disciplina e regolazione si intersecano.

Stretto tra continuità e rottura è l’Iran delle politiche di fertilità, quello post-rivoluzionario del dopo ‘79, quello della Repubblica islamica che si è fatta agente e garante degli interventi dello Stato sul corpo degli iraniani. All’indomani della rivoluzione è diventata prioritaria la costruzione di uno spazio – sociale oltre che politico – che fosse islamizzato a tutti gli effetti. I metodi di regolamentazione, e quindi di controllo, della vita riproduttiva degli iraniani non sono sempre stati coercitivi, ma anche e soprattutto politici, legali, sociali. Se l’imposizione dall’alto si sarebbe potuta rivelare nel tempo troppo costosa, la strategia ha seguito una logica di induzione dei fenomeni, insinuandosi nelle dimensioni: 1) personale; 2) familiare; 3) sociale in toto. L’ingresso dello Stato nell’esistenza degli iraniani (presenti, ma anche futuri) è avvenuto attraverso un doppio binario: uno che interseca la sfera pubblica (la regolamentazione dei movimenti e dei comportamenti in pubblico), un altro che investe la sfera privata, attraverso un sistematico rimodellamento dell’intimità dei cittadini e, dunque, del loro corpo in quanto tale.

Il discorso del potere ha così manipolato la costruzione delle identità individuali e collettive, attraverso la promozione di valori percepiti come positivi (in senso foucaultiano), ovvero: famiglia, religione, nazione.

I comportamenti sono stati metodicamente canalizzati verso una serie di scelte funzionali al discorso politico, plasmati tanto nello stile di vita quando nell’azione fisica dei corpi. La ricodificazione delle identità è passata attraverso una riconcettualizzazione della sfera pubblica e del ruolo degli iraniani rispetto alla nazione, all’Islam, alla famiglia. Fagocitando gli strumenti retorici di alcune forze del passato, co-optandone la forma ma non i contenuti, veicolando messaggi positivi per il benessere collettivo, la neo-Repubblica islamica ha prodotto regimi di verità. In questo senso, la vita e la riproduzione – quindi la sessualità e la maternità – sono state riformulate in termini politici, di religione, di genere. I modi di regolamentazione del corpo sono stati sempre legati – e non è un caso – a crisi politiche, economiche, sociali. A seconda delle esigenze della Repubblica islamica, le azioni dello Stato sul corpo dei cittadini e la produzione di domini di conoscenza (a tutti i livelli nella società, e non solo dall’alto verso il basso, perché il potere «circola») sono cambiati nel tempo.

Nei primi anni della Repubblica, infatti, il discorso seguiva il paradigma dei «figli» della neonata nazione islamica. Poi è stata la volta della guerra con l’Iraq (1980-1988): otto anni di battaglie e milioni di morti. A quell’epoca il mantra era «procrea per la patria». Gli anni Novanta sono stati gli anni della ricostruzione e dello sviluppo industriale, quelli del «cresci e consuma», dei progetti governativi di pianificazione familiare e di controllo delle nascite e dei contraccettivi gratuiti: quelli dei celebri slogan «due figli sono sufficienti», «meno figli, una vita migliore» che sono stati in grado di influenzare l’opinione pubblica e nel 1999 hanno fatto guadagnare un riconoscimento alle Nazioni Unite al ministro della Salute di allora, Alireza Marandi.

Con il nuovo millennio e un tasso di fertilità sempre più basso (stando ai dati ufficiali), il leit-motiv è mutato in: «Se continuiamo così, saremo una nazione di anziani», «i contraccettivi sono un’imitazione dello stile di vita occidentale» (parola della Guida Suprema, Ali Khamenei, 2012 e poi 2016), «possiamo diventare uno Stato di 150 milioni di persone» (tradotto: quasi raddoppiare la popolazione attuale), pronunciato sia dall’ex presidente populista Mahmoud Ahmadinejad nel 2010, che da Khamenei nel 2011 e anche due mesi fa: «Qualsiasi piano per fermare la crescita della popolazione dovrebbe aver luogo dopo che abbiamo raggiunto i 150 milioni».

Analizzando questi passaggi diventa evidente che l’individuo è in primo luogo oggetto e poi veicolo del discorso funzionale allo Stato. Temi come il benessere e la salute, l’allargamento della famiglia, la vita per la nazione, sono tradotti come necessità condivisa e collettiva. Allo stesso tempo, la medicalizzazione della maternità si è più volta fatta strumento di istanze nazionaliste o di crescita. E a quasi quarant’anni di vita della Repubblica islamica succede che la narrazione di governo è all’ennesimo giro di giostra.

È l’anno 2016, fine estate. Il governo iraniano annuncia che finanzierà fino all’85 per cento dei costi per i trattamenti di fertilità negli ospedali pubblici, per tutte le coppie sposate che hanno difficoltà a concepire. Il viceministro della Sanità Mohammad Aghajani spiega che la copertura spese, per un investimento totale di 27 milioni di euro, avverrà in nome di tutte le coppie poco fertili, «circa due milioni di iraniani». Già da quattro anni sono stati tagliati più volte i fondi per i programmi di pianificazione familiare e si prova a vietare definitivamente la vasectomia (un metodo di prevenzione introdotto su scala nazionale dagli anni Novanta), mentre dal 2014 la distribuzione gratuita dei contraccettivi è stata ridotta a più riprese.

Secondo i più conservatori, il controllo delle nascite è l’unico responsabile del calo di natalità nel Paese, tanto che Khamenei in un discorso pubblico del 2012 ha ammesso di aver sbagliato: «Uno degli errori che abbiamo fatto negli anni ’90 era il controllo della popolazione. I funzionari di governo hanno sbagliato su questo tema, e anche io, ha avuto una parte. Che Dio e la storia ci perdonerà».

La realtà appare più complessa. 1) L’Iran è un Paese dove il 70 per cento della popolazione ha meno di 35 anni, quindi in piena età riproduttiva; 2) Dal 2005 al 2014, la percentuale di uomini non sposati sopra i 35 è salita dal 6,7% al 10,2%, quelle delle donne over 30 nubili è passata dal 6,3% al 13,8% per un totale di 11 milioni di giovani (dati snocciolati da Ali Akbar Mahzoon, presidente del Dipartimento di Statistica in un’intervista a Mehr News Agency a marzo 2016); 3) Se è vero che le coppie sposate fanno figli con più difficoltà, ci sono due fattori che hanno inciso: le sanzioni internazionali da un lato, e dall’altro le politiche economiche di Ahmadinejad che hanno fatto balzare l’inflazione a +30 per cento e aumentare in modo esponenziale il numero di disoccupati; 4) valori come la famiglia e la nazione sono ancora molto forti e collettivamente percepiti, ma sono in aumento le donne che studiano e lavorano.

In questo contesto, che spazio hanno i diritti riproduttivi e l’autodeterminazione delle coppie? I contraccettivi sono il vero nemico della natalità? Uno studio pubblicato su Archives of Iranian Medicine Journal nel 2015, fotografa un Paese in cui i metodi di contraccezione più comuni sono quelli naturali (29,8%). La prima gravidanza non è pianificata dal 20,6% delle donne. E ancora: l’intervallo di tempo fra il matrimonio e il primo figlio è aumentato sensibilmente negli ultimi dieci anni. Dunque, secondo i ricercatori, per la «salute riproduttiva degli iraniani» sono fondamentali «risorse sufficienti per i servizi e nuove politiche di pianificazione familiare».

Come abbiamo visto, il rapporto tra politica della vita e politica sulla vita finora ha programmato e plasmato la soggettività degli iraniani rispetto alla Repubblica. Nel contempo ne ha disciplinato le azioni, controllando (in)direttamente il corpo degli individui. Il processo, però, sta cambiando: l’Iran di oggi non segue più lo stesso imperativo morale che in passato ha legittimato la Repubblica islamica. È un Paese che appare sempre meno pronto a riprodurre il discorso politico e a rispondere positivamente ai proclami di «fertilizzazione» dell’establishment. È forse arrivato il momento di rovesciare il paradigma dei «figli della nazione».