«In quei momenti drammatici tutta, dico tutta la popolazione di Visso, Ussita e Castelsantangelo è stata fatta evacuare e trasferita nei campeggi della costa, dove pure i vecchi, che mai se lo sarebbero sognati, sono stati costretti a trascorrere per mesi quelle lunghe giornate vista mare, con la malinconia nel cuore» racconta Angelica Sepi. Ricorda così le ore concitate dopo il terremoto del 30 ottobre 2016, quando il Centro Italia tornò a tremare con forza, colpendo la Valnerina, cuore del Parco Nazionale dei Monti Sibillini.

LA BIOGRAFIA DELLA GIOVANE Angelica è una delle 18 raccolte nel libro Quando arriva primavera. Biografie e storie di comunità negli Appennini del doposisma, curato da Chiara Caporicci, tra i fondatori dell’associazione Casa, Cosa accade se abitiamo, a Frontignano di Ussita, Paolo Coppari, già presidente dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Macerata, coordinatore del progetto itinerante Cantieri mobili di storia nei paesi del dopo sisma, e Silvana Nobili, referente della Libera Università di Anghiari.

IL VOLUME, COME RICORDA nella prefazione Pietro Clemente, offre una polifonia di voci che accompagnano il lettore a comprendere il dramma del terremoto: «Sono tutte storie diverse: cambia l’età, il sesso, il lavoro, la località, la vicinanza ai centri urbani, ma fanno parte tutte dello stesso coro, ovvero di uno spazio comune di memoria, di un territorio comune di transiti, e soprattutto della comune e drammatica esperienza del terremoto. Il terremoto è in tutti una ferita non risarcita, un ricordo insopportabile, un trauma che guarda al futuro per essere superato. Il loro racconto è un esercizio di elaborazione del lutto».

È PROPRIO QUESTO IL SENSO del progetto editoriale: dalle macerie, interiori ed esterne, possono nascere parole e storie di vita da restituire e donare alle comunità. Un patrimonio collettivo. «Lavorare in questa direzione può essere importante nella delicata fase del post-terremoto, quando insieme alle case e alle strade, occorre ricostruire anche e soprattutto altre infrastrutture, in particolare quelle civiche come la fiducia e il senso di appartenenza» scrive Coppari. Così di fronte alla retorica che torna ad ogni anniversario, la consapevolezza di Angelica è un incredibile bagno di realtà: «Io non credo che ci vorranno meno di venti o trenta anni perché tutto torni ad essere come prima o quasi. Quasi, perché un terremoto è come un lutto: dopo non avrai più quello che avevi. È perso per sempre». Sottolineando, però: «Non credo di essere pessimista. Sono realista». Oppure vedere ciò che descrive Fernando Lapucci, di Vari di Pieve Torina: «Quando demoliamo le case, i proprietari piangono come se stessero ad un funerale e poi se ne vanno. Purtroppo a queste scene assistiamo solo noi che siamo rimasti qui, a quelli che se ne sono andati sembra ormai passato tutto, invece il momento più critico è proprio ora».

E ANCORA: «SE AVESSI una bacchetta magica reinventerei tutte le abitazioni crollate, tutti i luoghi che sono stati danneggiati, vorrei che ritornasse la felicità in tutte le persone che sono rimaste, vorrei che la nostra comunità ritornasse come prima» dice Giuliana Mancini. Stefano è un giovane allevatore di montagna: «Io qui stavo bene prima e sto bene adesso. La cosa che mi limita sono i bambini perché se dovessi pensa’ solo a me non sarebbe cambiato niente. Ad esempio alla scuola di Visso sono rimasti in pochissimi e questo è un problema. Mi auguro che si raggiunga un numero sufficiente per terminare la scuola media e continuare poi a Pieve Torina quando sono più grandicelli. La cosa che mi preoccupa è questa» dice, evidenziando come nell’area del cratere il terremoto ha acuito i problemi di tutte le aree interne.

PERCHE’, PER TANTI COME LUI, andarsene non è possibile: «Io comunque resto quassù, perché se vado via sto male. Io se non vedo Monte Bove sto male».