La pellicola cinematografica è sempre stato un supporto fragile, soggetto all’usura del tempo e al deperimento organico, sotto forma di muffe e funghi, fino alla temibile sindrome acetica, processo chimico degenerativo irreversibile, che ha come conseguenza l’irrigidimento e la deformazione della pellicola. Per decenni questi processi hanno rovinato materiali filmici custoditi negli archivi di tutto il mondo, eppure un cineasta come lo statunitense Bill Morrison – ospite della prima edizione dell’Unarchive Found Footage Fest con una selezione di film e la partecipazione a uno dei tre panel – ha sfruttato creativamente questa catastrofe naturale a suo favore, costruendovi su un inconfondibile immaginario.

Nato nel 1965 a Chicago, Morrison si è laureato nel 1989 alla Union Cooper School of Art, iniziando a realizzare film dall’anno successivo (Night Highway). Da allora la sua filmografia è cresciuta di oltre 40 titoli, tra cui spiccano alcuni medi e lungometraggi come Decasia (2002) o The Great Flood (2013), ma anche straordinari corti come Light is Calling (2004), Just Ancient Loop (2012), All Vows (2013), The Letter (2018) o Her Violet Kiss (2021). Quasi tutti i suoi film – che hanno come base di partenza il repertorio – lavorano sul decadimento del fotogramma, sullo scollamento dell’emulsione, sulla corrosione dell’immagine che, in alcuni momenti, divora letteralmente la celluloide, creando singolari e affascinanti effetti visivi. La trama del film originario si dissolve a favore di un flusso di associazioni e suggestioni narrative, dove gli esseri umani (i personaggi) sono costretti a convivere con le escrescenze materiche, con le pennellate organiche stese sul supporto dai capricci del caso. La selezione, il rallentamento, il re-cadrage e il montaggio dei singoli fotogrammi fanno il resto: ovvero resuscitano miracolosamente il corpo della pellicola, trasformandolo in un altro film o in un film altro, misterioso e perturbante, tale da restituirci nuovi significati.

È su questo confine tra figurazione e astrazione che si fonda l’estetica di Morrison, su questo gioco prezioso di ricombinare e re-impastare i diversi strati pellicolari. Il cinema diventa allora un aggregazione di materia e memoria (parafrasando Merleau-Ponty) da decostruire e ricostruire idealmente all’infinito. Allo spettatore è richiesta una visione concentrata e attenta, ma anche la fruizione in loop – come avverrà all’Accademia Spagnola con l’antologia Decay Dance che raccoglie dieci anni di materiali dal 2013 al 2023 – consente di entrare meglio dentro il film come esperienza cinematica in continua metamorfosi, dove il crepitio della luce, i lampeggiamenti del colore, la vitalità dell’emulsione si fanno ritmo, danza, musica. E, a proposito della musica, il cinema di Morrison – che è quasi sempre muto – rivive anche grazie alla componente musicale. Nel corso degli anni il filmmaker ha collaborato con compositori e strumentisti quali Bill Frisell, Michael Gordon, Steve Reich, Chronos Quartet, Philip Glass, Michael Harrison, Maya Beiser, Julia Wolfe, Michael Montes e tanti altri. Ci sarebbero molte domande da rivolgere a uno dei più grandi innovatori nel campo del found-footage come lui, ma al ri-creatore di immagini «trovate» e fatte rivivere sotto inedite forme, abbiamo chiesto solo poche cose, sufficienti a spiegarci meglio il suo approccio concettuale all’archivio e alcuni procedimenti tecnici.

Dagli anni ’90 a oggi i tuoi film da un punto di vista estetico non sono sostanzialmente cambiati, eppure hai esplorato le infinite possibilità di lavorare sull’archivio. In che modo ti approcci alle immagini e, nello specifico, ai film dei primi decenni del cinematografo?
L’archivio, in effetti, spesso è il mio punto di partenza. Mi imbatto in filmati che mi parlano o parlano di una storia più ampia o di un problema attuale. Penso che ogni film presenti una serie di sfide e ognuno di essi richieda una risposta specifica rispetto al materiale che lo ha ispirato. Di conseguenza, da un film all’altro, c’è sempre un cambiamento nell’approccio estetico che rispecchia questo. Credo che il cinema primitivo sia simile all’uomo primitivo: cioè quando il medium filmico è nato ha rappresentato una nuova specie, introducendo nuove storie, nuovi sogni e una nuova coscienza, ma soprattutto una nuova forma che ha cambiato il mondo per sempre. Ho attinto molto a questa metafora nei miei primi lavori. E penso che condividiamo tutti le radici di quella forma originaria. Il cinema del passato rappresenta il nostro antenato comune e, mediante esso, siamo connessi gli uni con gli altri.

Cosa ti affascina di più dell’idea di lavorare sul deperimento della pellicola, sulla sua fragilità che, tuttavia, crea immagini di straordinaria potenza visionaria? Forse proprio questa contraddizione tra la bellezza e la sua decomposizione, tra la morte della materia e la rinascita sotto altre forme?
Sì, c’è una tensione tra l’apparente fragilità del mezzo e il fatto che sia comunque sopravvissuto in questo stato. Penso che la cosa più affascinante sia quando la forma del supporto in qualche modo riformula il suo contenuto. Non cerco sempre il decadimento della materia, ma mi interessa in primo luogo come la storia si rispecchi nel medium e viceversa.

In che modo intervieni tecnicamente sulla pellicola? Sempre lasciando fare al caso, cioè fotografando e ristampando fotogramma per fotogramma frammenti di film già corrosi dal tempo, oppure intervieni con acidi o altri processi di deterioramento della pellicola?
Cerco di non intervenire troppo sull’immagine, magari ritaglio il fotogramma o cambio la velocità di scorrimento, ma senza aggiungere prodotti chimici sulla pellicola per alterarla. Sono molto più interessato al processo di degrado che si è verificato in natura, nel tempo, senza l’intenzionale intervento umano.

Il cinema per te è soprattutto materia, luce e colore, eppure nei tuoi film c’è sempre una sorta di narrazione che costruisci fondendo insieme film di diversa provenienza. Penso a lavori come «The Letter», ma anche a «Just Ancient Loops» o «The Great Flood»…
Non mi considero un regista di pura astrazione, che si occupa principalmente di materia, luce e colore. Ho costruito una lunga filmografia di lavoro che prevedere sempre un qualche tipo di trama, per quanto astratta possa essere quella storia. Alcuni titoli attingono a un’unica fonte, a volte perfino alla singola sequenza di un film. Altri miei film invece derivano da una precisa collezione o archivio. Poi ci sono film più descrittivi composti da più fonti, messe al servizio di una storia più dettagliata che sto cercando di raccontare.

Come reagiscono di solito i puristi del cinema delle origini o gli archivisti in generale di fronte al modo in cui rielabori i materiali di repertorio?
Oddio, non lo so. Probabilmente alcuni piace il mio cinema, ad altri no.

Credi che il tuo modo di lavorare sul found-footage contribuisca anche a una rivalutazione e a una rilettura della storia del cinema? Penso a lavori come «Film of Her» o «Decasia», ma in generale tutto il tuo lavorare con le immagini in movimento è una riflessione sul cinema, un po’ come fa Godard con la sua «Histoire(s) du cinéma».
Non so se e come il mio lavoro contribuisca a una rivalutazione o rilettura della storia del cinema. È una questione che attiene agli esperti e ai critici. In generale un artista non pensa al suo lavoro in questo modo. Io mi limito semplicemente a fare tutto ciò che trovo interessante e lascio a voi studiosi di contestualizzarlo nell’ambito giusto. Ciò che trovo entusiasmante del cinema è che – più di ogni altra forma d’arte – si presta a una riflessione sul dispositivo e sull’atto della fruizione da parte dello spettatore. Ogni film affronta il momento in cui il pubblico lo sta guardando e il suo grado di consapevolezza. In questo senso un segmento temporale del film, in qualche modo, riflette il tempo dello spettatore che lo guarda.

Oltre a presentare i tuoi film nei festival il tuo lavoro, fatto di still e installazioni, è anche esposto in musei a cominciare dal MoMA. Come ti relazioni al sistema dell’arte? Oppure invece senti di far parte soprattutto del mondo del cinema?
Di certo preferisco proiettare i miei film in uno spazio buio dotato di un buon sistema audio dove le persone sono sedute e (più o meno) prestano attenzione dall’inizio alla fine. Questi sono i parametri del cinema e, quando realizzo un’opera, tengo a mente quel tipo di condizioni. Penso che ci siano dei limiti nel mostrare immagini in movimento in una galleria o in un museo, così come ci sono dei limiti nel proiettare film durante un’esibizione dal vivo. Bisogna accettare quei parametri e, di conseguenza, progettare il film pensando al momento in cui sarà fruito.

In futuro realizzerai mostre con installazioni pluricanale di grandi dimensioni? «Dystopia» è stato presentato anche sotto forma installativa in un contesto museale?
Certo, mi piacerebbe fare un lavoro multicanale più ampio. Ma, ancora una volta, il formato dovrebbe essere strettamente legato al contenuto. Dystopia è stato creato per una performance sinfonica dal vivo e non è mai stato presentato al di fuori di quel contesto.

Tra i tuoi maestri di riferimento c’è sicuramente Robert Breer che è stato tuo docente, ma anche Stan Brakhage e, più in generale, quei cineasti sperimentali che lavorano sul singolo fotogramma. Quanto ha contato per te la visione del cinema astratto dalle avanguardie fino al film strutturale e oltre?
Breer mi ha fatto conoscere quell’intera generazione di registi che hanno fortemente influenzato il modo in cui pensavo al cinema e al fare arte in generale. Ho scoperto che la natura temporale dell’opera è molto diversa quando si fa riferimento allo stesso dispositivo filmico, dal punto di vista strutturale, chimico, fisico o narrativo. E quella temporalità influisce percettivamente sullo spettatore in modo diverso, poiché fa riferimento al tempo della nostra visione.

Dalle tue opere si intuisce che tu sia amante della pittura. Ci sono artisti che hanno influenzato il tuo modo di guardare e di rielaborare le immagini filmiche?
Amo molto la pittura e io stesso sono pittore. Non direi però che singoli pittori o dipinti specifici abbiano influenzato molto il mio modo di lavorare nel cinema. I miei quadri, per esempio, non hanno niente a che fare con i miei film. Ma mi ispiro a moltissimi pittori, tra cui Bonnard, Guston, Hopper, Hockney, Kiefer, Manet, Matisse, Alice Neal, Rauschenberg, Richter, Rothko, Polke, Vermeer, Vuillard, solo per citarne alcuni. Sono anche ispirato da moltissimi registi e musicisti.

La musica è una componente fondamentale del tuo immaginario e hai lavorato con numerosi compositori, sia per le colonne sonore dei tuoi film, sia per le sonorizzazioni dal vivo. In che modo lavori con i musicisti?
Tutto dipende dal musicista e dalla natura del progetto. A volte il film guida il progetto, a volte invece questo compito è affidato alla musica. Capita che sia io a commissionare la colonna sonora a un compositore, mentre in altre occasioni un compositore a commissionarmi un’esibizione di immagini dal vivo. A volte la musica è già scritta, a volte il film è già stato montato, ma succede anche che entrambi – io e il musicista – stiamo lavorando simultaneamente alle nostre rispettive componenti. Tuttavia, nella maggior parte dei casi lavoriamo indipendentemente l’uno dall’altro, inviandoci periodicamente bozze o bozzetti e discutiamo su quelli. Sono fortunato ad aver lavorato con moltissimi compositori che non hanno bisogno di molti input da parte mia per creare la parte sonora.

«Incident» rappresenta un punto di svolta nella tua filmografia. È sempre un lavoro di found-footage ma, stavolta, hai ricostruito un drammatico evento – l’uccisione da parte della polizia dell’ennesimo afroamericano inerme (in questo caso proprio nella tua città, Chicago) – attraverso filmati di telecamere di sorveglianza o di «body worn camera». Come mai questa scelta di cambiamento radicale nel tuo modo di concepire le immagini?
Un mio amico, Jamie Kalven, ha scritto ampiamente su questo caso particolare. Attraverso la sua organizzazione, che si chiama Invisible Institute, ha collaborato con lo studio londinese Forensic Architecture per creare sei video di 10 minuti che esplorano diversi aspetti di questo caso, dal contesto storico più ampio delle forze dell’ordine e dei rapporti razziali a Chicago negli anni, ai giorni, ore, minuti, secondi e millisecondi che circondano questo particolare incidente. Questi video sono stati presentati in una galleria e sono disponibili online. Mentre esploravo tutti i filmati disponibili, un diverso tipo di costruzione narrativa ha preso forma nella mia mente. Ero sempre stato incuriosito dall’idea di attualizzare un classico del cinema come Rashomon, lasciando raccontare una vicenda da diversi testimoni, ciascuno munito di una macchina fotografica. Ho capito che questa era quella storia. Poiché le immagini erano digitali ma a bassa definizione, ho sentito che potevano essere organizzate e montate utilizzando tecniche specifiche del dispositivo video, cosa che probabilmente non avrei fatto se fossero state immagini cinematografiche.

Pensi di continuare in futuro in questa direzione diciamo così «politica»?
Credo ci sia stata una componente politica in gran parte del mio lavoro, per esempio vi sono molti film che vanno letti in questo senso: Decasia, The Highwater Trilogy, The Miners’ Hymns, The Great Flood, Back to the Soil, Dawson City: Frozen Time, Let Me Come In, The Village Detective: a song cycle, Buried News. Voglio dire che i film possono essere politici senza fare apertamente riferimento a vicende contemporanee. Ogni volta che sono spinto a realizzare un nuovo film utilizzando un filmato esistente, mi domando innanzitutto che cos’è quel filmato e perché lo trovo rilevante o degno di nota. La forma del film e la sua estetica necessariamente devono restituire quel contenuto.

In che modo il digitale ha cambiato il tuo lavoro su pellicola?
La ricerca digitale, l’editing e la distribuzione hanno reso il mio lavoro molto meno costoso e la mia produzione più fluida. L’ultimo film fotochimico che ho realizzato in laboratorio è stato The Highway Trilogy (2006). Da quel momento in poi ho sempre scansionato in digitale tutti i materiali. Tuttavia cerco sempre di realizzare una stampa in pellicola del film finito per scopi di archiviazione. Potrà sembrare paradossale ma, secondo me, il digitale è per oggi, mentre l’analogico è per domani.