Con un discorso alla Casa Bianca, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden giovedì ha confermato il ritiro delle truppe americane: «via entro il 31 agosto», perfino prima della data dell’11 settembre annunciata lo scorso aprile.

GLI OBIETTIVI della missione sono stati raggiunti: sconfitta al-Qaeda in Afghanistan e ucciso Osama Bin Laden. Del resto, se ne occupino gli afghani. «Non siamo andati lì per fare nation-building».

Quasi contestualmente, da Mosca arrivava la replica indiretta dei Talebani: «controlliamo l’85% del territorio», così secondo Shahabuddin Delawar, tra i membri della delegazione accolta nella capitale russa. Difficile confermare l’annuncio degli studenti coranici.
Ancora più che negli anni passati, nelle ultime settimane quella afghana è diventata una guerra di propaganda. Dichiarazioni e contro-dichiarazioni. Perfino il ministero della Cultura e dell’informazione ha pensato di intervenire, insieme all’ufficio del Procuratore generale di Kabul.

AMMONENDO I GIORNALISTI, dicendo loro che diffondere notizie contro l’interesse nazionale è un reato e che i soldati morti sul campo di battaglia vanno chiamati «martiri». Peggiora dunque la situazione dei colleghi afghani, già vittime di una campagna di eliminazione mirata, mai rivendicata dai Talebani ma ben orchestrata, tanto da spingere centinaia di giornalisti e giornaliste a lasciare il Paese.
Ben orchestrata è anche l’offensiva militare che in poche settimane ha portato alla conquista di circa metà dei 400 distretti afghani e di alcuni posti di confine strategici.

CON L’UZBEKISTAN, con il Tajikistan. Più di recente quello di Islam Qala, al confine con l’Iran, e di Torghundi, al confine con il Turkmenistan, entrambi nella provincia occidentale di Herat, a lungo sotto il controllo italiano. Da Mosca, i Talebani inviano comunque segnali rassicuranti.

«Non intendiamo avanzare nei capoluoghi di provincia», promettono, anche se mercoledì hanno dato una spallato militare a Qala-e-Now, nella provincia di Badghis, e proprio ieri si sono fatti vedere nei quartieri periferici di Kandahar. Più che alla popolazione afghana, i messaggi di rassicurazione sembrano rivolti alle capitali regionali: «non intendiamo minacciare nessuno. Faremo da argine contro lo Stato islamico», ripetono i barbuti.

SECONDO IL MINISTRO degli Esteri russo, Sergey Lavrov, la postura belligerante dei Talebani dipende dall’incapacità del governo di Kabul di trovare un’intesa per un governo a interim che faciliterebbe la soluzione diplomatica del conflitto.

Mentre uno dei portavoce del gruppo ha sostenuto che l’offensiva militare, anche se non pienamente dispiegata, è una reazione al mancato rilascio dei detenuti dalle carceri (sono 5.000 quelli già liberati) e alla mancata rimozione dalle liste «nere» dell’Onu.

Si tratta di due tra le poche leve di condizionamento rimaste a Washington e alla comunità internazionale per convincere i Talebani a riprendere il dialogo negoziale. Due giorni fa erano a Tehran, accolti dal ministro degli esteri Zarif, per discutere con una delegazione del «fronte repubblicano» di Kabul. Ne è uscito un documento in cui ci si impegna sul negoziato. Davvero troppo poco.

Per il presidente Usa Biden, quel che accade ora in Afghanistan è un affare degli afghani. «Non invierò un’altra generazione di americani a combattere in Afghanistan senza alcuna ragionevole aspettativa di un esito differente». E ancora: «è diritto e responsabilità del popolo afghano decidere il proprio futuro e in che modo vuole che il Paese sia gestito».

Una difesa a oltranza della scelta del ritiro. E un’abdicazione di responsabilità. Perché le condizioni che gli afghani si trovano ad affrontare sono state create anche dagli Stati Uniti, con vent’anni di guerra. E se i Talebani oggi sono così forti è anche a causa del modo in cui Washington, prima con Trump, poi con Biden, ha gestito il negoziato bilaterale con i Talebani. Concedendogli troppo, se non tutto. E lasciando indietro, indebolito, il governo di Kabul.