Tutti i libri di Ben Lerner sono teatri allestiti per mettere in scena la frizione tra il senso delle parole e la loro sonorità, dove a venire esibita è la tensione esercitata sul linguaggio, sia quando viene forzato a ritrovare la verginità semantica dell’infanzia, sia quando slitta nel nonsense, cosa che accade, per esempio, nei dibattiti linguistici in voga fra gli studenti americani, dove la posta in gioco è parlare il più velocemente possibile, finché il senso crolla e dall’emissione vocale viene fuori una sorta di glossolalia. Lerner ne parlò in un saggio su «Harper’s» titolato «Contents of words» e dedicato alle «gare di parola»; poi riprese l’argomento nel suo bellissimo romanzo Topeka School (Sellerio 2020) dove il protagonista, Adam Gordon, ripercorre la sua vita, che in buona parte coincide con quella dell’autore. È  ovvio, con queste premesse, che la strada della poesia sia stata la prima a venire tentata: Ben Lerner ha esordito come poeta nel 2004, e della poesia ha analizzato la frustrazione derivata dallo scontro fra il desiderio di superare la dimensione finita per raggiungere l’ordine del trascendente, e la finitezza dei mezzi a nostra disposizione. Si è chiesto, di conseguenza, in Odiare la poesia (Sellerio 2017) che forma d’arte sia quella che ha «come condizione della propria possibilità un perfetto disprezzo», perché i suoi prodotti – le poesie – fatalmente testimoniano la «irragiungibilità dell’ideale utopico della Poesia».

È  un «io che contiene moltitudini» quello inseguito da Ben Lerner con la propria scrittura, qualunque forma prenda, come è evidente, una volta di più, sfogliando il suo nuovo libro, uscito questo mese negli Stati Uniti con il titolo The Lights (Farrar, Straus and Giroux, pp.128, $ 13,99), dove pagine di versi si alternano a altre in prosa, senza capoversi, come colate di parole sulla pagina, ordinate in blocchi compatti.

L’occasione di incontrare Ben Lerner è data da un invito al «2084, festival» ospitato a Milano dall’EstRiver, scandito in lezioni e incontri  ideati dalla Scuola di scrittura Belleville, che con sprezzo della rincorsa ai produttori di bestseller, ha invitato Lerner insieme a altri scrittori di insicuro successo e accertata abilità.

Nel costruire il suo ultimo libro quale funzione ha assegnato alle parti in versi e a quelle in prosa, e come mai ha deciso di non andare mai a capo?
Nel corso dei quindici anni passati ho cercato di esplorare, dal punto di vista formale, le potenzialità di versi molto lunghi, che sembrano restare sospesi tra la prosa e la poesia; mentre dal punto di vista tematico mi interessava prendere in prestito il concetto di personalità giuridica assegnato dalla legge americana alle grandi corporation, perché questo mi restituisce una idea di  comunità alla quale si estendono i diritti dell’individuo.  È  un  libro che si presenta, per me, come una grande incubatrice di temi pregressi. Quanto alla mancanza di capoversi, non volevo che le idee venissero separate le une dalle altre, e non intendevo indurre quel sollievo nella lettura che dà la suddivisione in paragrafi. Intendevo, invece, creare l’effetto di una cascata linguistica, e dare al testo la configurazione di una fuga.

Ben Lerner

La poesia sembrerebbe autorizzarla a restare più fedele alle sue libere associazioni di pensiero, ma in realtà lei spesso rompe la consequenzialità logica anche nelle parti in prosa…
Sì, è vero. Direi che in queste prose poetiche ero molto interessato a ottenere una dissolvenza dei versi nella narrazione, un po’ come quando si cerca di captare un segnale radio e a volte c’è solo rumore, a volte si riceve il segnale. Tra poesia e prosa per me c’è un continuum, e certamente mi concedo più associazioni libere nelle poesie che nella narrativa; ma soprattutto lascio che nei versi le associazioni musicali prevalgano sulla linearità di quella che potrebbe essere una trama. Alcune delle poesie di The lights sono comparse per la prima volta all’interno di miei romanzi, e questa raccolta si è andata configurando, via via, come il luogo in cui le idee potevano essere trasferite da una poesia a un’opera di finzione e viceversa.

Lei ha parlato del lavoro che sta dietro alla scrittura del suo romanzo, «Topeka school», come una ricerca finalizzata alla riscoperta della originaria instabilità del linguaggio: quella condizione di estraneità che la lingua ha per noi quando siamo bambini, e tutto ci suona come una novità. Sta andando avanti su questa strada?
Sì, nella mia scrittura è sempre implicata una relazione tra distopia e utopia: l’una è specchio dell’altra. La distopia riguarda la possibile fine del discorso pubblico, e il rischio di piombare nella psicosi se si avverte che il linguaggio potrebbe perdere completamente di senso e di significato; mentre l’elemento utopico ha a che fare con la meraviglia di fronte al fatto che la serie di suoni a cui noi diamo forma con la laringe e con la bocca, ci permette, in quanto esseri umani, di produrre un mondo sociale. La poesia si trova, per me, nel punto in cui il linguaggio crolla e, al tempo stesso, collassando su di sé torna a quell’impulso originario da cui ha origine la potenzialità sociale di un regno fatto di suoni. È questa l’ossessione che torna in tutto il mio lavoro, e viaggia tra poesia e romanzi.

Traduco da una prosa di «The Lights», titolata «The rose», qualche riga che rende conto di quanto diceva: «Posso farle una domanda personale? Ha mai avuto la sensazione che il suo discorso sia dettato da associazioni fonetiche a tal punto che anche – o forse soprattutto – nelle sue relazioni più intime, il contenuto dei suoi discorsi viene guidato da esigenze relative alla forma acustica? Questo mette in crisi con se stessi. E apre nuovi  problemi alla formazione del consenso».
È un passaggio che, per l’appunto, ha molto a che vedere con ciò di cui stavamo parlando: mi sta a cuore l’idea che quando strutturiamo un discorso a volte sappiamo a mala pena ciò che stiamo per dire e, almeno in una certa misura, diamo forma ai suoni prima ancora di mettere a fuoco quel che intendiamo comunicare. Vale a dire che i nostri discorsi sono spesso dettati da una intuizione estetica: è un momento di pericolo perché può indicare il fatto che stai parlando tanto per parlare, senza dire nulla di significativo; ma è anche un momento potenzialmente proficuo, perché ci ricorda che la musicalità del discorso estende la capacità di incontrare il senso. La letteratura è fatta di pressione sulla lingua e sulla materia di cui sono fatti i concetti per tirarne fuori la musicalità. Sto parlando di quello stupore suscitato dal fatto che il linguaggio ci attraversa talvolta indipendentemente dalle nostre decisioni individuali, e se è vero che noi utilizziamo il suo potere, è anche vero che il linguaggio si serve di noi come strumenti della sua espressività.

Nella poesia dalla quale prende il titolo il libro, lei ospita nei suoi versi la figura del rivoluzionario dissidente Victor Serge. Come è arrivato a insinuarsi nelle sue pagine?
A monte c’è un aneddoto, che riguarda il mio desiderio di incontrare John Berger, un mio idolo. L’opportunità mi venne data da un film che girarono su di lui: non intendevo essere ripreso, ma entrai comunque nel gruppo di persone che lo intervistarono mentre si girava. Prima che lo raggiungessimo nel villaggio delle Alpi dove era andato a vivere, Berger chiese a tutti coloro che erano coinvolti nel film di leggere Victor Serge. Io non lo conoscevo affatto, mi resi conto rapidamente di quanti libri aveva scritto, circa una trentina, e cercai di leggere tutto quel che potevo. Volevo fare una buona impressione con Berger, fare vedere che da quelle letture avevo ricavato delle buone idee; quando arrivammo da lui, parlammo di un milione di cose, ma Victor Serge non venne nemmeno nominato. Ebbi di nuovo l’opportunità di intervistare Berger per la «Paris Review» quando ero in Germania, ma mi venne la polmonite e non potei andare. Dopo non molto tempo Berger morì e da allora Victor Serge mi è rimasto in mente come la figura rappresentativa di una conversazione mai avuta. Berger amava in  Serge la convinzione, mai abbandonata, che gli esseri umani possano continuare a rendere il mondo dotato di senso. Per entrambi, essere un materialista storico implicava la capacità di provare meraviglia di fronte alle cose del mondo: non è uno sterile atteggiamento teorico, al contrario c’è dell’eros in questa capacità di stupirsi ancora. Più tardi mi capitò di scrivere un pezzo per la «New York Review of Books» in cui cercai di addivenire a una sorta di catalogazione di tutta la luce, la brillantezza che troviamo nel lavoro di Serge, sia nei suoi aspetti più materici sia nella sua fiducia nelle capacità umane, anche quando vengono tradite, vuoi da Stalin, vuoi dal capitalismo.

In un passaggio conclusivo del racconto che ha scritto lo scorso aprile per il «New Yorker», e titolato «The ferry», il protagonista – ossessionato da alcuni messaggi che ha ricevuto sul telefono – riflette sul silenzio della moglie, arrabbiata con lui. E le dice: «È ingiusto, perché se si crea un silenzio intorno alla lingua, questa comincia a suonare come qualcosa di folle, o come una poesia, scardinata dalla realtà».
Mi piace molto un verso del poeta americano James Tate, in cui definisce la poesia come linguaggio che si esprime contro uno sfondo di silenzio. I generi letterari, per me, si distinguono sulla base della pressione che viene esercitata sulla lingua, e la poesia è certamente il risultato dello stress maggiore. Ma se uno vede poesia in ogni dove vuol dire che non sta tanto bene. Il passaggio che lei citava ci riporta a quella linea sottile che separa l’utopia dalla distopia, e allude a quanto succede quando una percettività esasperata sconfina nella paranoia. Se è vero che la poesia implica la capacità di vedere una forma, un disegno, una struttura, il protagonista di questo racconto vede un disegno pregresso in ogni cosa, quindi è chiaro che sta cominciando a perdere la testa.

Cosa pensa della ibridazione della forma romanzo con fotografie, saggi, poesia: è diventato un genere a sé, non le sembra un po’ tanto una moda?
Quando funziona bene, ovvero quando produce una drammatizzazione dell’incontro con altri lavori artistici, può riattivare e aggiornare le risorse di quella forma estremamente elastica che è il romanzo, da sempre aperta all’inclusione di poesie, canzoni, persino disegni. In una cultura così dominata dalle immagini com’è la nostra, questa ibridazione può testimoniare la capacità di un testo di finzione di ricontestualizzare la fotografia; ma quando tutto si risolve in  una accumulazione di oggetti sulla pagina è chiaro che questo nasconde una povertà formale.

C’è un brano, in «The light», che comincia così: «Immagina una canzone, disse lei, che dia voce alla rabbia della gente…La rabbia precede la canzone… ma la canzone precede le persone, le persone sono già formate dal loro canto, che socializza il sentimento, espande il terreno di ciò che è percettibile. La voce deve essere cantata per esistere, quindi il canto precede la parola, ne libera il terreno…».
Penso che la luce e il linguaggio del canto svolgano, in questo libro, una funzione molto simile: segnalano entrambe ciò che le poesie non possono realizzare. Il poeta può descrivere la canzone che unirà le persone, ma non può effettivamente cantarla. L’idea è che la canzone sia una specie di parola per una collettività che nei fatti non esiste, ma che è sperabile si formi in futuro. Accanto all’idea, pressoché ossessiva nella mia scrittura, di un mondo che si riorganizza intorno a ciò che si pensava fosse reale e si rivela invece una finzione, c’è anche la fantasia di una collettività a venire: le mie poesie cercano di descrivere la possibilità di un canto capace di unire le persone nelle loro differenze.

Ha letto gli ultimi due romanzi di Cormac McCarthy?
Sì, li ho letti e ho al riguardo sentimenti contrastanti…

Avrà notato che nel «Passeggero» adopera il corsivo per descrivere i deliri schizoidi di Alicia, la matematica che sarà poi protagonista del successivo «Stella Maris». L’uso che McCarthy fa del corsivo è nella scia di Faulkner in «L’urlo e il furore», e poi di altri. Lei, invece, in «Topeka school», usa il corsivo per le parti in cui è protagonista il personaggio di Darren, un ragazzo psichicamente disturbato, ma assegna a questo carattere tipografico una funzione del tutto inedita: ne parlammo all’uscita del romanzo. Vuole riassumerne qualcosa per chi non l’avesse letta allora?
Sì, in Topeka school ho usato il corsivo per quei passaggi, che sono anche i più letterari, dove non intendevo penetrare nella psiche del personaggio bensì segnalare la perifericità delle parti che lo riguardano rispetto alle altre sezioni del romanzo. Quelle parti sono a margine degli altri capitoli così come Darren è periferico rispetto alla comunità che il romanzo descrive. E, d’altra parte, le pagine in corsivo mettono in evidenza il fatto che chi scrive non ha accesso all’esperienza di Darren. Intendevo ottenere da una parte un effetto di distanziamento, dall’altra enfatizzare il fatto che,  Adams, la voce narrante, ormai adulto, tenta di abitare la mente di quel ragazzo, ma non riesce, e deve quindi riconosce i limiti del suo accesso a ciò che realmente pensa Darren.