Quando, nel 1953, Aspettando Godot di Samuel Beckett debuttò a Parigi, il suo successo era inatteso. Il Théâtre de Babylone, che lo aveva prodotto, stava per chiudere causa fallimento e il suo direttore aveva deciso di finire in bellezza, portando in scena un testo i cui caratteri lo facevano apparire fondamentalmente irrappresentabile: ciò nonostante, restò in cartellone per più di un anno.

Com’è noto la scena è occupata da due personaggi spersi al crocevia di una strada che non porta da nessuna parte: non fanno nulla in attesa di qualcuno, Godot, che venga a salvarli; ma quel qualcuno non arriva mai e, nel frattempo, parlano, o forse parlicchiano, mescolando in modo frammentario ricordi, banali momenti di conversazione, improvvise aperture filosofiche. Arrivano altri due personaggi, uno porta l’altro al guinzaglio con una lunga corda, e si crea un breve incontro che resta, così… sospeso nel vuoto. La stessa situazione è riproposta nei due atti – l’uno specchio dell’altro – con piccole/grandi inspiegabili variazioni (ad esempio, l’uomo che tiene al guinzaglio l’altro, nel secondo atto, è cieco). Quanto tempo è trascorso tra un atto e l’altro: un giorno? Una vita intera? Forse, e soprattutto, un tempo non misurabile, illogico e metaforico.

Assurto a manifesto della poetica di Beckett pur essendo la sua prima opera teatrale a essere rappresentata, Aspettando Godot è un testo in cui si rispecchia perfettamente l’epoca smarrita del dopoguerra, quando l’autore irlandese – da anni trapiantato in Francia – aveva già rinunciato a una promettente carriera di francesista, abbandonata dopo un brillante libro su Proust, per dedicarsi completamente alla scrittura: in francese, perché così, come ebbe a dire in seguito, poteva sfuggire alle trappole dello stile.

Della frequentazione con James Joyce si rinviene una traccia via via più labile nei suoi romanzi, da Murphy a Watt fino ai primi due pannelli della cruciale «trilogia dell’innominabile», Molloy e Malone muore, immediatamente precedenti al Godot: in essi una voce narrante lascia che si susseguano, in una sorta di strano mélange, frammenti di azione, brani di ricordi, incontri, tutti ruotanti attorno a personaggi chiusi nella loro solitudine, mentre la declinazione del flusso di coscienza si fa gradualmente più radicale rispetto al suo modello originario.

Serrate in un solipsismo desolante – che dalla narrativa si travasa ben presto a infiltrare anche la scrittura teatrale – le prose di Beckett si infilano nell’impasse rivelata dalla celebre pagina che chiude la trilogia: «Ci sarà un silenzio(…) Non posso continuare, bisogna continuare, e allora continuo». A partire da questa dichiarazione quasi disperata, Beckett sperimentò nuove soluzioni, tanto nei racconti quanto nelle pièce, alternando inglese e francese, e il più delle volte traducendo se stesso, e giungendo a nuovi capolavori quali Come è, nel 1961, o Lo spopolatore, nel 1970, mentre si dedicava  anche alla radio e alla televisione con esiti straordinari per quello che era un mezzo ancora giovane, disposto, negli anni settanta e nei primi ottanta, a giocare le sue carte anche al di fuori del puro intrattenimento.

Il Meridiano che Mondadori dedica a Beckett, con il titolo Romanzi, teatro e televisione (a cura di Gabriele Frasca che scrive anche un saggio introduttivo, una cronologia, una nota all’edizione e note per i singoli testi più una bibliografia conclusiva, pp. 1795, € 80,00) rende per l’appunto conto di questo aspetto polifonico della sua personalità artistica, offrendo nuove traduzioni a cura di Frasca, che le ha anche dotate di preziosi apparati sulla storia editoriale e/o rappresentativa di ciascuna opera, aggiungendo chiarimenti attorno ad alcuni passaggi o scelte terminologiche di un autore che fu coltissimo, le cui citazioni, per lo più implicite, vengono ora sciolte, rendendo evidente lo scenario culturale e artistico del tempo.

Anziché distinguere i diversi generi attraversati da Beckett in sezioni inevitabilmente poco comunicanti, Frasca ha costruito la continuità di un tessuto in cui si succedono, seguendo il solo ordine cronologico, romanzi, teatro e televisione, così che – ad esempio – si capisca come un romanzo quale Come è si collochi all’interno della produzione teatrale o come la televisione divenga, a un certo punto, centrale. Ne emerge un flusso di scrittura in divenire,  che via via si agglutina attorno a un’opera per poi tornare a scorrere nuovamente, cercando altre forme.

A scorrere di seguito le quasi 1800 pagine del volume, sembra interessi a Beckett, più ancora dei singoli risultati di volta in volta raggiunti, la forma ideale che il pensiero trova nella scrittura mentre riflette l’io in un mondo che lo assedia, e gli risulta sempre più estraneo e misterioso.

Ogni qual volta Beckett fa un passo avanti verso una nuova opera, maggiore è lo sforzo di sottrarre, cancellare, nientificare. Il confronto tra Aspettando Godot e i testi drammatici immediatamente successivi, Finale di partita, L’ultimo nastro di Krapp e Giorni felici, manifesta con forza questa dinamica, che arriva a prevedere – nell’ultimo dei tre – un solo personaggio femminile, conficcato in una montagnola di terra nel primo atto fino alla vita e nel secondo fino al collo, con il marito ridotto a un’ombra quasi impercettibile e muta, alle sue spalle. L’azione si risolve in un monologo frammentario, vero e proprio flusso di coscienza a voce alta, il cui andamento ritmico è incalzante, a evidenziare la musicalità della parola – tra accelerazioni, pause, silenzi e accensioni – in una minutissima partitura che segnala ogni più piccolo gesto, fino al movimento degli occhi, rendendo la scena teatrale una fusione mai vista prima di minima azione fisica e parola scritta, che tra battute e didascalie, si fa difficilmente leggibile.

Nella produzione degli anni settanta, la riduzione ai minimi termini del dettato e la decostruzione dei fondamenti narrativi è ancora più evidente: Mica io (1973, nuova traduzione del titolo, rispetto al precedente Non io, scelta con un’accorta motivazione derivata dall’inglese Not I) e Quella volta (1976) sono due esiti opposti di una drammaturgia dell’io incerto e perduto dentro di sé, della sua identità sfumata e della sua memoria frammentata. Nel primo caso, un personaggio, calato nel buio dal quale una luce salva e illumina solo la bocca, si abbandona a un flusso di coscienza che lo porta a vagare dentro di sé e nei suoi ricordi, alla ricerca di un ordine impossibile da recuperare. Nel secondo, un personaggio canuto, grigio, dal volto bianco, che Beckett chiama «ascoltatore», è assediato da tre voci che gli rimandano la sua vita a brandelli: ridotto a un frammento, è una scheggia di umanità alla ricerca disperata di una fisionomia irrecuperabile.

Nei testi di quest’ultimo periodo – evidente in Mica io e Quella volta ma già nella Winnie infissa nella terra di Giorni felici, vera e propria icona del teatro contemporaneo – la situazione drammatica si traduce seccamente in un’immagine. E la parola, questa parola così inquieta nel cercare un senso e un racconto che le sfuggono, diventa visiva. Non solo nel teatro ma anche nei romanzi, il flusso del racconto si concretizza in immagini: succede, per esempio,  in Lo spopolatore, dove la desolante aspirazione a vivere che si fa largo nell’ansia claustrofobica sono figurate in un grande cilindro dalle pareti levigate, con una serie di piccole nicchie nella parte alta. Disponendo sul muro delle lunghe scale, i personaggi a turno cercano un’ascesa che si rivela fondamentalmente fine a se stessa, perché non porta da nessuna parte e, soprattutto, non consente di uscire da quel reclusorio che è il mondo.

Il rapporto con l’immagine è persino più chiaro quando Beckett scrive per la televisione: se in Eh Joe (1966) la telecamera inquadra, con piccoli ritmici avanzamenti, un uomo fino al primissimo piano del volto, mentre una voce fuori campo gli parla di sé, in Quad (1981) parola e voce spariscono del tutto. La scena è un quadrato, attraversato a turno o contemporaneamente da quattro figure con una lunga tunica e un cappuccio (una bianca, una gialla, una rossa e una blu) che ne percorrono i lati e ne tagliano la diagonale, secondo uno schema fisso e ripetitivo che definisce una vera e propria coreografia, ancorché astratta.

Parola, immagine, smarrimento di sé, stupore, straniamento: questi i segni connotanti lo stile che, a apertura di pagina, Beckett ha reso inconfondibili, rendendo le sue opere emblematiche  di una condizione esistenziale di cui non fatichiamo a sentirci tuttora partecipi.