In occasione dei March Meeting 2024 organizzati dalla Sharjah Art Foundation Beatrice Catanzaro e Fatima Kadumy nel panel (Re)learning Indigeneity: Ecologies of Art, Sustainability and Resistance hanno raccontato l’esperienza di Bait al Karama a Nablus (Palestina) . Abbiamo incontrato l’artista Beatrice Catanzaro (Milano 1975) in occasione della sua partecipazione ai March Meeting 2024, l’annuale appuntamento che si è svolto dal 1 al 3 marzo.

Tema di questa sedicesima edizione era «tawashujat» (intreccio, incontro) in un’ottica di «immaginazione e costruzione di futuri inclusivi, equi, sostenibili e vivibili» con un’attenzione particolare alla Palestina attraverso diverse realtà come Sakiya a nord-ovest di Ramallah, Dar Yusuf Nasri Jacir for Art and Research a Betlemme e Bait al Karama a Nablus.

Nel panel (Re)learning Indigeneity: Ecologies of Art, Sustainability and Resistance, le fondatrici Beatrice Catanzaro e Fatima Kadumy (in video) hanno raccontato l’esperienza di Bait al Karama («casa della dignità»), primo centro per donne della città vecchia di Nablus e convivio Slow Food in Palestina attivo dal 2012.

Com’è cambiata l’attività di Bait al Karama nel tempo?
È molto cambiata ma siamo sopravvissute anche al covid. Fin da quando abbiamo iniziato c’era la consapevolezza che Bait al Karama si sarebbe potuta declinare in qualsiasi forma necessaria a dare una risposta concreta nel contesto. La sua sostenibilità è sostanzialmente legata alle relazioni che abbiamo intessuto negli anni, ma dipende soprattutto dal fatto che Fatima Kadumy come direttrice e tutte le donne che vi partecipano sono della città vecchia di Nablus. Certamente, la situazione attuale è talmente critica che nell’assenza di una presenza internazionale di gruppi e persone che venivano a fare lezioni di cucina, l’urgenza è stata quella di dedicarsi ad altre attività. Attraverso le relazioni con organizzazioni locali, oltre che la Croce Rossa Internazionale e Save the Children, siamo diventare il riferimento per portare aiuto a chi ha bisogno con distribuzioni alimentari e di primo aiuto. Durante la pandemia, prima del Ramadan, abbiamo fatto un censimento capillare di tutta la popolazione della città vecchia di Nablus, cercando di capire quali fossero le famiglie più bisognose. È un nostro censimento che non è stato commissionato da nessuno, necessario per avere il polso della situazione. I palestinesi sono molto dignitosi e difficilmente chiedono aiuto, siamo noi che in qualche modo dobbiamo anticipare.

Beatrice Catanzaro (ph Manuela De Leonardis)

Adesso, in particolare, abbiamo attenzionato una decina di donne che sono rimaste con numerosi figli a carico e senza reddito. Il tentativo è di cercare di trovare per loro dei piccoli lavori. Inoltre, Bait al Karama essendo il primo centro per donne della città vecchia è diventato un riferimento anche per la politica locale, proprio per capire quali siano le esigenze della popolazione. Un focus importante è quello dei bambini, infatti adesso abbiamo sette donne locali che stanno lavorando fisse, tre in cucina e quattro educatrici, per seguire i bambini nel doposcuola e dargli un ambito di protezione. In particolare negli ultimi mesi in cui la presenza dei militari israeliani nel territorio è diventata capillare, le strade sono molto a rischio.

Facendo un passo indietro, come nasce la tua conoscenza con Fatima Kadumy e l’idea di dar vita a Bait al Karama?
Durante una residenza artistica presso il Decolonizing Architecture/Art Residency (DAAR) a Beit Sahour, nel 2009, ho cominciato a fare un po’ di esplorazioni in Cisgiordania. Sono tornata anche a Nablus dove ero stata nel 2005 con un amico medico. Lì mi sono sentita incredibilmente a casa, anche per la straordinaria e incondizionata ospitalità dei palestinesi. Un giorno, invitata ad un Iftar di Ramadan organizzato dal Sindacato dei Lavoratori Palestinesi, mi sono ritrovata al tavolo seduta accanto a Fatima. C’è stata da subito una bellissima sintonia malgrado le nostre visibili differenze. Lei è la classica donna musulmana con l’hijab. Mi aveva colpito il guizzo dei suoi occhi. Le chiesi se potevamo rivederci perché il mio immaginario sulla Palestina era come quello che si è sempre raccontato e volevo capirci di più. Fatima mi ha accolto nella sua casa, sono entrata nella sua vita domestica con il marito e i due figli che allora erano bambini. Ho trascorso un altro paio di mesi a Nablus semplicemente seguendo le sue giornate e quelle di altre donne, vedendole cucinare. Poi una mattina, presa dal desiderio di tornare per fare qualcosa con Fatima, le proposi di aprire un centro per donne con una scuola di cucina. Era il 2009. Lei mi disse di sì solo per farmi contenta ma non ci credeva. Invece, l’anno successivo tornai dopo aver trascorso diversi mesi facendo fundraising che sostanzialmente erano cene di raccolta fondi dove, dalla Fondazione Pistoletto alla Kattan Foundation, avevo mobilizzato tutta la mia rete di conoscenze. Avevo coinvolto anche una cara amica, Cristiana Bottigella, che è a Londra ed ha lavorato a distanza come cultural manager.

L’intuizione non era ancora consapevole, ma stando sul posto mi ero resa conto di quanto la casa fosse importante per i palestinesi. La sede di Bait al Karama ci è stata data in concessione da una famiglia locale, noi abbiamo cominciato a sistemarla partendo dalla cucina. Ricordo le mani di Fatima, di sua madre e delle sue sorelle mentre cucinavano, mani bellissime. Non c’erano libri di cucina in casa, tutta la conoscenza era lì, in quelle mani, nella pratica del fare. Non ho scoperto nulla di nuovo, ma la rivelazione che quel fare potesse uscire dall’ambito del loro ruolo domestico è stata una scoperta anche per loro.
Ero anche curiosa del perché dell’utilizzo di un dato ingrediente, allora ho cominciato a ciacolare con i venditori del mercato. La mia curiosità ci ha spinto anche fuori da Nablus andando nei villaggi lì intorno.
Eravamo un gruppo di donne in situazioni rocambolesche. Io guidavo l’automobile e una volta, sbagliando strada, siamo quasi finite in una colonia.

Nei villaggi incontravamo altre donne che magari erano nella raggiera di relazioni familiare, amicali o dei contatti di lavoro. Siamo andate a Tell che è famoso per il labaneh e il maftur; nel villaggio di Burin, a ridosso di una colonia piuttosto aggressiva, dove abbiamo incontrato una farmer che faceva lo zathar e con lei abbiamo parlato di erbe selvatiche; a Wadi Kelt abbiamo fatto il pane. Il nostro era un gruppo di ricerca informale. Dopo abbiamo iniziato ad invitare quelle donne dei villaggi a Bait al Karma perché cucinassero. Tutto questo aveva una doppia funzione, intanto che le donne riprendessero l’abitudine di spostarsi, ma soprattutto era l’occasione anche per loro per apprendere la loro cultura. «I learn myself through the other» (conosco me stessa attraverso l’altro), mi diceva Fatima.