Giornalista televisivo che ha lasciato il suo posto per essere libero da censura e controlli, documentarista di successo, pensiero e voce critica nel mondo del suo Messico, emigrato a Los Angeles dove sta per ricevere il più importante premio di giornalismo americano, Silverio ha paura dei momenti di felicità e si lascia sopraffare dai sensi di colpa dei fallimenti e degli «atti mancati» negli affetti, nei rapporti coi figli, nel confronto con le ossessioni e i rimossi profondi di una vita. Ma chi è davvero quest’uomo sulla sessantina spaesato nel labirinto dei rimpianti e delle scelte, in un tempo frammentato di memorie che ripercorre la sua vita tra i conflitti della propria arte e le idee nelle sue parole, i lampi dell’infanzia cattolica e borghese in Messico e la polemica distanza dal proprio Paese? Lo celebrano, lo blandiscono ma anche lo accusano i suoi amici messicani e la famiglia di essersene andato, di non avergli dato nemmeno una particina nei suoi film, di «leccare il culo» ai gringos, di nascondersi dietro a quell’impegno intellettuale che è solo di facciata – «siamo noi a guidare il nuovo proletariato» gli ghigna il boss del cartello intervistato in galera. E dì affidarsi a immagini che vogliono mostrare «una realtà» col piacere dell’ego sempre in agguato. Gli dicono che non sa guardare il mondo quale è, di non conoscerlo più, di avere perso la «verità», persino il figlio adolescente che quando discutono risponde in inglese.

PER SILVERIO però la realtà si coglie solo nella finzione e la libertà esiste nell’immaginazione mentre si sente sempre più in bilico in quel tempo che si accartoccia, che lo porta fuori da sé, di qua e di là, tra l’America e il Messico: tutto sembra vicino e insieme lontanissimo, cosa significa essere «a casa»? Bardo. La cronaca falsa di alcune verità di Alejandro G.Inarritu, presentato ieri nel concorso veneziano non è una autobiografia – come ci suggerisce il titolo e confermano le continue dissertazioni del protagonista sul rapporto tra finzione e realtà – anche se è evidente, e lo afferma egli stesso, che si nutre della vita del regista messicano, dei suoi luoghi – come il quartiere in cui è cresciuto, La Colonia Narvarte, a Città del Messico. E poi di stati d’animo e emozioni di vissuto, pure se stabilire cosa è «vero» e cosa no poco importa: possiamo chiamarla un’autofinzione nella quale Inarritu – autore della sceneggiatura insieme a Nicolas Giacobone e anche al montaggio – compone il proprio Amarcord (e Fellini è solo una delle molte citazioni che punteggiano questo racconto) ripercorrendo nel viaggio del suo personaggio le vicende personali e del Messico «dentro» al suo cinema composto, ricomposto, osservato a distanza e quasi nell’interno.

La redazione consiglia:
Il supereroe solitario di IñárrituDa Amores Perros (2000) – e i cani sono presenza costante – che lo affermò nel mondo – era stato presentato alla Semaine de la Critique di Cannes – scritto insieme a Guillermo Arriaga col quale ruppe nettamente ai tempi di Babel (2006) – fino all’arrivo a Hollywood (con 21 grammi nel 2003),e poi il successo, i riconoscimenti, primo tra i quali l’Oscar vinto più volte, tutto in filigrana, suggerito e insieme evidente. E che maneggia appunto la storia del Messico, i secoli di feroce colonialismo spagnolo, i massacri degli indios, le sconfitte divenute leggende, l’onnipresenza americana in un Paese in svendita e ostaggio delle multinazionali e degli accordi commerciali imposti dal vicino che chiude i confini depredando qualsiasi economia possibile. Questa «cronaca dell’incertezza» come la chiama Silverio (Daniel Jimenez Cacho) si presenta però da subito soprattutto come l’occasione per esibire al massimo il compiacimento del proprio gesto cinematografico, tronfio sin dagli esordi, in cui «l’immaginazione» (quello spazio libero tanto acclamato) si confonde col sovraccarico, il virtuosismo e la potenza di un budget miliardario.
Ecco allora il formato di riprese in 65 millimetri – con la fotografia affidata a Darius Kondji– e la continua, fastosità di un malinteso barocco di droni, carrelli, onirismi e quant’altro per tre ore – quasi a sottolineare anche la relazione tra schermo e piattaforma, Netflix, dove uscirà dopo la sala in diversi paesi il 16 dicembre.
A che cosa servono? Quale è il loro significato? Invece di aprire (i cuori, le teste) l’impressione è di soffocare, chiusi nei confini di questo universo altisonante del maschio che si rivolge a sé stesso in cui nessuna delle «sue» donne ha una dimensione propria ma si fa archetipo – la moglie amatissima e accudente, la figlia, la madre.

IL RESTO appare accessorio, e contraddetto da quanto vediamo, le sue «lezioni» sull’arte e sull’informazione oggi – fatta solo di tweet e aggressioni, verissimo per carità ma … Inarritu stratifica l’intero immaginario messicano e dell’America latina, musica, icone, processioni, apparizioni, letteratura, visioni fantastiche: un mix che tritura il realismo magico nel format Netflix svuotandolo della sua «poesia» provocatoria, ‘affermazione di un sincretismo che si opponeva alla narrazione coloniale. Che rimane infine? L’esibizione del proprio filmare. Troppo o troppo poco ma forse oggi la verità del falso è solo questa.