A Kabul il presidente Ashraf Ghani invoca unità e promette che entro 6 mesi la situazione tornerà stabile. A Lashkargah, Kandahar ed Herat, i Talebani continuano l’assedio militare e intensificano lo scontro con le forze speciali.

Nelle tre città arrivano distanti le parole rassicuranti del presidente Ghani. Che ieri ha riunito i parlamentari della Camera alta e bassa per un lungo discorso concluso con il sostegno univoco alle forze di sicurezza. Ne hanno bisogno. Quasi ovunque nel Paese sono sotto attacco. Ghani si lascia sfuggire di essere rimasto sorpreso dagli eventi degli ultimi tre mesi, durante i quali i Talebani hanno conquistato più della metà dei circa 400 distretti del Paese. Ma attribuisce la responsabilità alla decisione avventata di Washington di ritirare i soldati. Contraddicendo quanto diceva solo due mesi fa: allora, il ritiro era l’occasione per gli afghani per tornare a esercitare sovranità in casa propria.

Ieri Ghani è tornato a lanciare un duplice messaggio ai Talebani: siamo pronti al dialogo, anche alle elezioni anticipate, perfino a un incontro con il leader dei militanti mullah Akhundzada, ma sappiate che abbiamo un piano per combattervi duramente. La popolazione aspetta di vedere quale.

Mentre i Talebani si aspettano che Ghani si faccia da parte. Altrimenti niente negoziato: «il tempo del governo di Ghani è finito». Il conflitto prosegue, la violenza si intensifica. In particolare a Lashkargah, capoluogo della provincia meridionale dell’Helmand. I Talebani hanno occupato due edifici della polizia e una volta entrati in città hanno cercato di liberare i detenuti dalla prigione. I bombardamenti dell’aviazione afghana e americana lo hanno impedito. Ma pare abbiano conquistato una delle sedi della Radio-Tv governativa, da cui ora viene annunciata «La voce del jihad». A rimetterci, sono i civili. La città è paralizzata. Dall’ospedale di Emergency gli aggiornamenti sono sempre più drammatici: crescono i feriti di guerra ricoverati e i pazienti che arrivano già morti.

A Kandahar ieri la situazione sembrava più tranquilla, ma nei distretti intorno alla città sono proseguiti gli scontri, mentre è tornato operativo l’aeroporto, chiuso per diverse ore a causa dei razzi lanciati dai militanti. A Herat, nell’omonima provincia occidentale, l’ex signore della guerra e ancora dominus della provincia, Ismail Khan, ha chiamato alla mobilitazione: «combattere le forze dell’ignoranza è un dovere di tutti, uomini e donne». Si è assicurato anche una telefonata di ringraziamenti di Ross Willson, Chargé d’Affairs di Washington in Afghanistan.

Il quale ha annunciato l’estensione dei criteri per l’accoglienza negli Stati Uniti del personale afghano che in questi anni ha collaborato con gli americani. Un gesto di generosità da parte di Washington, dice qualcuno. La definitiva presa di coscienza delle conseguenze nefaste dell’accordo bilaterale tra Usa e Talebani. Grazie al quale i Talebani hanno ottenuto molto. Gli afghani nulla. Se non l’aumento della violenza.

Con una lettera aperta sul New York Times, due ex rappresentanti dell’Onu in Afghanistan, Kai Eide e Tadamichi Yamamoto, dicono che c’è un ultimo spiraglio di pace «per evitare la catastrofe». Serve un mediatore internazionale e solo l’Onu può svolgere quel ruolo. Gli Usa, la Russia e la Cina, insieme ad altri membri del Consiglio di Sicurezza dovrebbero autorizzare la nomina di un Rappresentante speciale come mediatore ufficiale. Ma occorre agire in fretta. Secondo l’ultimo rapporto della missione Onu nel Paese, reso pubblico pochi giorni fa, nei primi 6 mesi del 2021 sono stati uccisi 1.659 civili e feriti 3.524. Il 47 per cento in più rispetto allo stesso periodo del 2020.