Bene hanno fatto i sindaci a bloccare la corsa di Calderoli verso una autonomia differenziata in salsa leghista. La notizia non riceve l’attenzione che meriterebbe solo perché oscurata dall’anniversario dell’assurda guerra nel cuore d’Europa. Il presidente Anci Decaro scrive al ministro che una innovazione istituzionale di così grande rilievo impone una riflessione approfondita. Ha ragione, e dice quello che avremmo voluto sentire in Consiglio dei ministri all’atto del frettoloso primo disco verde al disegno di legge Calderoli. I Comuni si sono fatti Stato, esercitando una supplenza verso chi avrebbe dovuto parlare e non l’ha fatto.

Diventa sempre più chiaro che Giorgia Meloni ha commesso un errore subappaltando l’autonomia differenziata all’alleato leghista. Forse contava su una lealtà che non c’è poi stata sulla contemporaneità con la riforma presidenzialista. Conta, invece, che siano in mani leghiste tutte le sedi decisionali più rilevanti sul tema: ministero delle autonomie (Calderoli), economia (Giorgetti) e infrastrutture (Salvini). Calderoli ha praticato forzature a raffica, fino all’ultima di un comitato tecnico-scientifico imbottito di fan antichi e neofiti dell’autonomia differenziata. Ora Meloni potrebbe trovarsi nella condizione di perdere il controllo, e vedere il paese sfarinarsi quando occupa Palazzo Chigi e si sciacqua la bocca con i «patrioti» e la «nazione». Il pericolo è grave, e non bastano le rassicurazioni di ufficio.

È vero o no che la maggiore autonomia, una volta concessa, è potenzialmente irreversibile perché qualsiasi cambiamento dovrebbe passare attraverso le forche caudine di un assenso della regione già beneficiata? È vero o no che se un diverso clima politico, un’altra maggioranza, un nuovo ciclo economico vedessero la necessità di un passo indietro o comunque di una modifica potrebbero essere fermati dalla difesa di privilegi conseguiti da questa o quella regione? È vero o no che la legge attributiva di maggiore autonomia ai sensi dell’art. 116.3 non potrebbe nemmeno essere assoggettata a referendum abrogativo ai sensi dell’art. 75 della Costituzione? È vero o no che alla legge di attuazione a firma Calderoli non sarebbe consentito rimediare, sia ex ante non potendo porre con efficacia limiti giuridicamente cogenti alla legge attributiva di maggiore autonomia, sia ex post, non potendo intervenire successivamente a modifica?

È vero. Una risposta univoca per il giurista, cui si aggiunge un rischio politico, per l’effetto domino che la più ampia autonomia data a una regione avrebbe inevitabilmente sulle altre. I maggiori poteri e le maggiori risorse diventerebbero il metro per misurare la cifra del ceto politico regionale nel mercato generale della politica. Se un governatore mettesse le mani sulla scuola, sull’energia, sui porti, gli aeroporti, le ferrovie, i beni culturali o altro, anche gli altri vorrebbero farlo, non potendo concedere un vantaggio competitivo. Avviare l’autonomia differenziata significa dare inizio in tempi comunque brevi al disfacimento della Repubblica una e indivisibile.

Queste riflessioni giustificano ampiamente uno stop a Calderoli. Toti vuole il porto di Genova, Giani vuole l’energia e la Galleria degli Uffizi, Zaia vuole tutto di tutto e conferma la pretesa veneta per le 23 materie possibili (Italia Oggi, 23 febbraio). Qualche governatore dà segni di ravvedimento operoso, come il campano De Luca quando coglie che contratti integrativi delle regioni più ricche nella scuola e nella sanità avvierebbero un esodo potenzialmente incontrollabile da quelle del Mezzogiorno.

In linea con il presidente dell’ordine dei medici di Napoli Zuccarelli per cui servirà la carta di credito e non la tessera sanitaria per curarsi. Prospettive per nulla smentite dagli ingannevoli Lep a costo zero o dal richiamo ai tributi maturati sul territorio del modello Calderoli.

Ma i contratti regionali integrativi paventati da De Luca non sarebbero forse possibili anche senza autonomia differenziata, in base alla potestà legislativa concorrente già riconosciuta alle regioni dall’art. 117.3 su istruzione, sanità, lavoro? Molto probabilmente sì. E allora non basta contrastare il ddl Calderoli. Bisogna anche cancellare gli elementi che mettono a rischio la Repubblica una e indivisibile nella ormai famigerata riforma del Titolo V del 2001. È quello che fa la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per la modifica mirata degli articoli 116.3 e 117 sulla quale stiamo raccogliendo le firme, anche online con lo SPID su www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it.