È una visita non annunciata, quella che ha compiuto a Kabul il segretario alla Difesa degli Stati uniti, arrivato domenica per «ascoltare e imparare». Per Lloyd J. Austin il conflitto afghano va «concluso in modo responsabile», ma la data del ritiro «è affare del mio boss», il presidente Joe Biden.

La visita di Austin arriva in una fase cruciale: secondo l’accordo bilaterale tra Talebani e Washington firmato a Doha nel febbraio 2020, le truppe americane vanno ritirate entro la fine di aprile, in meno di 6 settimane da ora.

GLI INCONTRI AVUTI DA AUSTIN con il presidente Ashraf Ghani, rassicurato ma solo in parte sul suo destino, e con i militari sul terreno servono a raccogliere ulteriori elementi per la revisione del dossier-afghano, ancora in corso. Per ora, spiega il segretario alla Difesa Usa, «teniamo aperte quante più opzioni possiamo». Austin non la cita, ma tra le opzioni c’è anche quella di un posticipo di 6 mesi del ritiro completo, difficile da far digerire ai Talebani se non in cambio di generose concessioni, forse proprio quel governo ad interim tanto avversato da Ghani.

RIMANE SUL TAVOLO anche l’opzione del ritiro completo entro fine aprile, come recita l’accordo di Doha che i Talebani continuano a ritenere, perlomeno pubblicamente, come l’unica strada percorribile. Si tratta di un’opzione logisticamente complicata, «molto difficile» secondo le stesse parole di Joe Biden, per il quale le truppe Usa non rimarranno comunque «troppo più a lungo» della data concordata.
Gli Stati uniti fanno le valigie, dunque, dopo 20 anni di una guerra che ha causato almeno 3,000 vittime civili ogni anno e un nuovo «grande gioco». Il recente attivismo diplomatico di Washington serve a guadagnare tempo e a cercare di nascondere un fallimento.

«SERVE UN ACCORDO DI PACE in fretta», ribadiscono tutti. Così ha fatto pochi giorni fa il segretario di Stato, Antony Blinken, nella lettera fatta pervenire ad Ashraf Ghani. E così hanno ribadito il 18 marzo i governi della “Troika estesa” – Usa, Cina, Pakistan, Russia – dopo la conferenza internazionale di Mosca a cui hanno partecipato anche i rappresentanti del governo di Kabul e del movimento dei Talebani.

La “Troika estesa” ha chiesto un’immediata riduzione della violenza. Lo stesso ha fatto a Kabul il segretario Austin, secondo il quale i successi diplomatici potranno arrivare solo una volta che ci sarà meno violenza. Il riferimento implicito è alla proposta di un periodo di 90 giorni di riduzione della violenza prospettato nella lettera di Blinken, preliminare all’accordo di pace vero e proprio da firmare nella conferenza che si terrà in Turchia ad aprile, su iniziativa americana.

I TALEBANI, che finora hanno accettato soltanto periodi molti limitati di tregua, come la settimana immediatamente precedente all’accordo firmato a Doha del 2020, due giorni fa hanno detto di aver proposto loro, già nel dicembre scorso, i 90 giorni di pausa: non una vera e propria tregua, ma una cornice per provare a chiudere un accordo politico con la controparte.
Gli americani hanno fretta di chiudere. Gli afghani molta meno. Ghani – alle cui spalle si scaldano vecchie e vecchissime volpe della politica tra i quali, non ultimi, molti “signori della guerra” – teme di rimanere con il cerino in mano, dopo essere stato proprio lui, nel febbraio 2018, ad aprire al dialogo con i Talebani.

QUESTI ULTIMI TEMONO invece di rinunciare all’arma con cui hanno ottenuto un posto ai tavoli diplomatici che contano: la violenza. E Ghani fa sapere che parteciperà alla conferenza turca soltanto se ci sarà il leader dei Talebani in persona, Haibatullah Akhundzada.