Era metà ottobre quando Ghassan Halaika, un attivista palestinese di Gerusalemme piuttosto noto e ricercatore del centro per i diritti umani Al-Haq di Ramallah, una organizzazione storica della società civile palestinese, ha cominciato a sospettare che il suo telefono fosse sotto controllo. L’apparecchio si bloccava di frequente, altre volte, durante le conversazioni, emetteva qualche ronzio. Colleghi e amici gli hanno suggerito di rivolgersi agli irlandesi di Front Line Defenders (Fld), che dal 2001 monitorano le attività di cyber intelligence a danno di esponenti della società civile. Un esperto di Fld ha scansionato il suo telefono e vi ha trovato lo spyware Pegasus, prodotto dalla NSO, azienda israeliana controllata dal ministero della difesa a Tel Aviv, al centro dello scandalo esploso in estate. Grazie ad Amnesty International e a Citizen lab, si è scoperto che attivisti dei diritti umani, giornalisti, uomini politici e dissidenti di mezzo mondo sono stati tenuti sotto stretta osservazione da Pegasus capace di controllare tutto ciò che entra ed esce da uno smartphone. Uno scandalo, a dir poco, così ampio e grave che la scorsa settimana persino il Dipartimento del Commercio degli Stati uniti ha aggiunto NSO e un’altra azienda di spyware israeliana Candiru, insieme a società russe e di Singapore, alla sua Entity List per le attività contrarie alla sicurezza nazionale o agli interessi della politica estera americana.

Il ritrovamento di Pegasus nel telefono di Halaika è stato poi confermato da ulteriori accertamenti svolti dagli specialisti di Amnesty e di Citizen Lab. L’indagine quindi si è ampliata. Sono stati scansionati altri 75 iPhone appartenenti a palestinesi membri di ong e associazioni varie. Alla fine, sono stati trovati altri cinque smartphone «infetti». I telefoni sono stati hackerati, tra l’estate del 2020 e nel 2021 senza che le vittime avessero eseguito alcuna azione come cliccare su un link o aprire un allegato. A clic zero dicono gli esperti.

Solo tre delle vittime dell’hacking hanno acconsentito alla divulgazione dei loro nomi. Sono, appunto, Ghassan Halaika, Salah Hammouri, avvocato di Addameer, che assiste legalmente i prigionieri politici palestinesi, e Ubai Al Aboudi, direttore del Centro Bisan che è anche un cittadino statunitense. Due anni fa Al Aboudi è stato incarcerato per alcune settimane senza processo con l’accusa di far parte del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp). La scorsa estate è stato arrestato dalla polizia dell’Autorità Nazionale di Abu Mazen per aver partecipato alle proteste per l’omicidio, compiuto da agenti dei servizi di sicurezza palestinesi, dell’attivista e oppositore politico Nizar Banat. Hammouri, di Gerusalemme, è anche cittadino francese. Da giovane ha scontato sette anni di carcere, con l’accusa di far parte del Fplp e di aver partecipato ad azioni di quel partito. Due settimane fa la ministra dell’interno israeliana, Ayelet Shaked, ha revocato la sua residenza a Gerusalemme sostenendo che «le sue attività costituiscono una violazione del rapporto di fiducia con lo Stato di Israele». Halaika di recente si è visto spesso nel quartiere di Sheikh Jarrah di Gerusalemme est, centro delle proteste di 28 famiglie palestinesi che rischiano l’espulsione per far posto a coloni israeliani che rivendicano la proprietà dei terreni dove sono state costruite le loro case.

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«Non possiamo dire chi ha installato lo spyware. Possiamo solo immaginare chi ha l’interesse e la capacità di farlo», ha commentato con ironia Salah Hammouri. I palestinesi hanno pochi dubbi su chi sarebbe dietro l’attività di spionaggio attraverso Pegasus. E puntano il dito contro Israele. «Abbiamo il sospetto concreto che ci sia un legame tra la scoperta del Pegasus nei telefoni di nostri colleghi difensori dei diritti umani e la recente designazione di sei ong palestinesi come organizzazioni terroristiche fatta dal ministro della difesa israeliano Gantz», ha detto ieri al manifesto Tahsin Alayyan, un membro di al Haq al termine della conferenza stampa che le ong per i diritti umani, accusate da Israele di essere «una copertura per le attività del Fplp», hanno tenuto a Ramallah. «Quella designazione – ha aggiunto – qualche ora fa è stata estesa territorialmente dall’esercito israeliano alla Cisgiordania. E questo significa che in qualsiasi momento Israele può chiudere i nostri uffici ed arrestarci». Alayyan ha invocato un maggior sostegno internazionale alle sei ong colpite dal provvedimento israeliano. «Abbiamo ricevuto messaggi di solidarietà e di vicinanza ma abbiamo bisogno di un appoggio più forte e robusto e passi concreti in particolare dell’Europa per bloccare le intenzioni di Israele», ha concluso.