Gli sciiti sotto attacco, di nuovo. Ieri nel corso della preghiera del venerdì un attentato ha provocato la morte di almeno 33 persone e il ferimento di decine e decine di altre nella moschea sciita di Bibi Fatima, nella città di Kandahar. Secondo le testimonianze raccolte dalla Reuters, sarebbero stati tre gli attentatori suicidi.

UNA PRIMA ESPLOSIONE all’ingresso della moschea, altre due all’interno. Secondo un medico dell’ospedale Mirwais di Kandahar, il bilancio è destinato a salire.

Nel momento in cui scriviamo, l’attentato non è stato ancora rivendicato dalla «Provincia del Khorasan», la branca locale dello Stato islamico (Iskp). Ma è plausibile che la matrice sia quella. Pochi giorni fa, l’8 ottobre, l’Iskp ha rivendicato la strage compiuta in una moschea sciita a Kunduz, nel Nord del Paese e prima ancora l’attentato all’ingresso della moschea Eidgah di Kabul, mentre era in corso una cerimonia funebre per la madre del portavoce dei Talebani, Zabihullah Mujahed. «Sono fratelli e martiri».

Così il portavoce del ministro degli Interni afghano. I Talebani prendono le distanze dal settarismo confessionale dello Stato islamico, ma gli sciiti e gli hazara non si fidano.

I TALEBANI li hanno perseguitati in passato, oggi in alcune aree continuano a sottrargli terre, case, proprietà. Secondo il ministero degli Interni, i responsabili dell’attentato a Kandahar verranno trovati e puniti. Ma i Talebani sono in difficoltà. Sotto attacco non sono solo gli sciiti, ma gli stessi Talebani: Kandahar è la città-simbolo del movimento, da dove regnava lo storico leader mullah Omar al tempo del primo Emirato. Lo Stato islamico intende dimostrare che i Talebani non sanno garantire sicurezza neanche in casa loro.

La violenza dello Stato islamico precede comunque l’arrivo al potere dei Talebani: secondo l’associazione Action on Armed Violence dal 2016 sono 13 gli attentati dell’Iskp contro luoghi di culto, 986 le vittime, tra morti e feriti.

LA «PROVINCIA DEL KHORASAN» preoccupa anche gli attori regionali. Ieri il presidente russo Vladimir Putin ha sostenuto che «secondo le stime della nostra intelligence, solo nel nord del Paese ci sono 2000 militanti», la cui strategia sarebbe anche quella di infiltrarsi tra i rifugiati che scappano dal regime dei Talebani.

Chiudere i confini è legittimo, sottintende Putin, che parla di Afghanistan a pochi giorni dall’incontro del 19 ottobre, quando Mosca tornerà a ospitare un incontro con i rappresentanti di Stati Uniti, Cina, Pakistan. Parteciperà anche una delegazione dell’autoproclamato Emirato islamico guidata dal mawlawi Abdul Salam Hanafi, vice primo ministro.

SE PER PUTIN i militanti islamisti si fingono migranti, i veri migranti afghani non se la passano bene. Human Rights Watch ieri ha pubblicato un rapporto sugli abusi delle forze di sicurezza turche contro i migranti afghani, picchiati e in molti casi respinti verso l’Iran, in violazione del diritto internazionale.

«Le autorità turche negano il diritto di asilo agli afghani che provano a fuggire e trovare sicurezza», sostiene Belkis Wille, ricercatore dell’organizzazione. Soltanto due giorni fa c’è stato l’incontro tra la delegazione dei Talebani e il ministro degli Esteri turco, durante il quale si è molto parlato della questione migratoria.

Oggi invece in Turchia Angela Merkel incontrerà il presidente Recep Tayyip Erdogan. È l’occasione per chiedere la fine la delle espulsioni sommarie degli afghani dal Paese, sostiene Human Rights Watch.