Nel sempre turbolento panorama politico cileno si registra una novità importante in vista del voto dell’11 aprile per l’elezione dei sindaci, dei governatori e, soprattutto, dei membri della Convenzione costituente: la nascita di un blocco politico anti-neoliberista, alternativo alla destra e alla socialdemocrazia. A costituirlo sono state le due coalizioni del Frente Amplio (Fa) e del Chile Digno, Verde y Soberano, di cui fa parte anche il Partido Comunista (Pc), il quale, sotto la spinta del suo precandidato presidenziale Daniel Jadue, ha rotto con la moderata Nueva Mayoría per abbracciare la strada dell’unità a sinistra, nel tentativo di trasformare la Convenzione blindata dalla casta politica in un’autentica Assemblea costituente.

DA QUI LA DECISIONE delle due coalizioni di presentarsi alle decisive elezioni dell’11 aprile con una sola lista, aperta alle organizzazioni della Mesa de unidad social e a «tutti coloro che, come noi, perseguono la trasformazione del paese», come ha dichiarato Jaime Mulet della Federación Regionalista Verde Social (una delle forze di Chile Digno). Molto resta ancora da definire, a cominciare dall’elaborazione di proposte comuni per la nuova Carta costituzionale, ma non c’è dubbio che l’aspirazione del nuovo blocco sia, ha proseguito Mulet, quella di rappresentare «nel modo migliore» il movimento di rivolta nato il 18 ottobre 2019, «accompagnando questo popolo che ha protestato e rivendicato, anche con il sangue».

 

Santiago del Cile, 24 ottobre 2019. Un arresto dei carabineros a margine della protesta contro il governo (Ap)

 

Non tutti, però, all’interno di tale popolo, si sentono rappresentati dal nuovo blocco di sinistra. Le forze più radicali del movimento di protesta, quelle che hanno continuato a scendere in strada settimana dopo settimana sfidando l’implacabile repressione dei carabineros, non perdonano infatti i cedimenti e le contraddizioni di cui hanno dato prova tanto il Fa quanto, sebbene in misura minore, il Pc.

NON DIMENTICANO per esempio come, appena tre giorni dopo lo storico sciopero generale del 12 novembre 2019, quando sarebbe bastata ormai una piccola spintarella per far cadere il governo, siano stati anche settori del Frente Amplio a firmare l’accordo per il plebiscito su una nuova Costituzione mirato prima di tutto a mantenere Piñera al potere e a porre fine alle proteste di piazza. Né dimenticano come sia stata anche una parte considerevole dello stesso Fa a votare al Congresso a favore della famigerata legge anti-barricate: un provvedimento, di fatto, contro il diritto alla protesta sociale, destinato a criminalizzare uno dei principali strumenti di lotta utilizzati fin dall’inizio della rivolta, quello delle barricate e dei blocchi stradali.

QUANTO AL PC, che pure non ha votato né quell’accordo né quella legge repressiva, ciò che i settori più combattivi del movimento di rivolta non gli perdonano è di aver di fatto stabilito una tregua con il governo, rinunciando a convocare nuove mobilitazioni e, con ciò, decidendo di fatto la partita all’interno del campo popolare, diviso tra la via di una soluzione negoziata e la volontà di spingere la ribellione fino alla sua conclusione naturale: la caduta di Piñera e la creazione di un’Assemblea costituente realmente libera e sovrana.

Quali conseguenze avrà tale decisione – in che misura cioè sarà ora possibile aggirare gli innumerevoli ostacoli posti a difesa dello status quo – lo deciderà in parte anche l’elezione dei 155 membri della Convenzione costituente, scelti tuttavia in base a un sistema elettorale disegnato su misura dei grandi partiti e da cui restano esclusi proprio i giovani con meno di 18 anni che hanno dato inizio alla rivolta, oltre a tutti quei prigionieri politici di cui i movimenti popolari chiedono instancabilmente – ma con ben poche possibilità di successo – la liberazione mediante indulto.

QUANTO IL CAMMINO sia impervio lo indica anche il pessimo accordo approvato all’unanimità dal Congresso sulla questione dei seggi riservati ai popoli indigeni: appena 17 (di cui 7 destinati ai Mapuche), anziché i 24 sollecitati in base al peso demografico della popolazione indigena (pari al 12,8% degli abitanti), e in più con l’esclusione del popolo tribale afrodiscendente.

Un accordo che non ha risposto a nessuna delle richieste dei popoli indigeni, i quali, divisi al loro interno anche sull’utilità o meno di seggi riservati ai fini della propria autodeterminazione, rivendicavano il diritto di definire loro stessi la propria partecipazione al processo costituente.