L’inferno libico fatto di torture, stupri, compravendita di esseri umani, riduzione in schiavitù è il prodotto della cooperazione con l’Italia, che condivide anche giuridicamente le responsabilità delle violazioni dei diritti umani subite da chi avrebbe diritto alla protezione internazionale. Come le donne vittime di tratta. L’accusa è mossa dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) attraverso un ricorso contro Italia e Libia presentato il 3 dicembre scorso, insieme alla Ong nigeriana Network of University Legal Aid Institutions (Nulai), davanti al Comitato per l’eliminazione delle discriminazioni contro le donne (Cedaw). L’organismo dell’Onu si occupa di verificare l’applicazione delle norme contenute nell’omonima convenzione, di cui i due paesi sono firmatari.

Doris (nome di fantasia) è una delle due ricorrenti. Parte dalla Nigeria nel 2018. Viene venduta più volte dai trafficanti, fino all’arrivo in Libia. Lì diventa una schiava sessuale: deve prostituirsi in una «connection house» per ripagare il debito del viaggio. Riesce a fuggire ma viene arrestata da un poliziotto, che la porta nel centro di prigionia di Bani Walid. Subisce maltrattamenti e abusi. Un uomo la compra e la riduce di nuovo in schiavitù: la costringe a lavorare gratis per ripagare il debito della liberazione dal centro. Doris scappa ancora, trova un lavoro e compra un viaggio su un barcone diretto in Italia. La «guardia costiera» libica la cattura e la riporta indietro. Finisce nella prigione di Tajoura. Ha davanti una detenzione arbitraria e indefinita. Incontra i funzionari dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) che le propongono il rimpatrio volontario. Accetta.

Le storie delle due ricorrenti si assomigliano e sono emblematiche di quello che per Asgi e Nulai è un sistema nato nel contesto del memorandum italo-libico firmato nel 2017 per fermare le partenze dei migranti. Fu negoziato dall’allora titolare del Viminale Marco Minniti (fino a febbraio scorso deputato Pd) e poi siglato dai primi ministri Paolo Gentiloni e Fayez al-Sarraj.

La prima parte del ricorso contesta alla Libia la violazione dell’obbligo di identificare e proteggere le vittime di tratta, ma chiede anche al Cedaw di riconoscere le responsabilità italiane. Perché è Roma che ha finanziato, formato e legittimato le condotte delle autorità di Tripoli. Secondo Asgi e Nulai le attività di contrasto delle partenze hanno posto le basi di un vero e proprio modello economico in cui attori istituzionali e di altra natura utilizzano in diverse forme i cittadini stranieri per ottenere profitti. Catture in mare, detenzioni arbitrarie, sfruttamento lavorativo, schiavitù sessuale, tratta di donne e uomini farebbero parte dello stesso meccanismo, «pianificato e sistemico».

La seconda parte del ricorso verte invece sui rimpatri umanitari volontari (Hvr) implementati dall’Oim, anche con finanziamenti italiani. La tesi, sostenuta dal parere di un pool di avvocati e giuristi della clinica legale dell’Università Roma 3, è che si tratti di «espulsioni mascherate». Perché in un contesto segnato da violenze e privazione della libertà la scelta del rientro nel paese di origine, che alle vittime di tratta pone seri rischi di essere «ri-trafficate», non può essere davvero libera. Oim Libia non ha risposto alla richiesta di commentare il ricorso.